Mai avevo seguito così da vicino la processione del martedì della Vara della Madonna della Consolazione di Reggio Calabria.
Sono state per me emozioni fortissime, dall’attesa in Cattedrale fino all’urlo ripetuto e veemente dei Portatori e della gente durante l’ingresso, a sera fatta, nel Duomo. Un nodo in gola mi sale ed in alcuni, vicino a me, quello stesso nodo si scioglie in un pianto. Sono tanti i volti, i momenti che affollano quel martedì, come il messaggio durissimo del Vescovo Morosini che raccomanda di votare secondo coscienza e non secondo convenieza, oppure l’invito agli amministratori di gestire la cosa pubblica nell’interesse di tutti e non di quello di parte, passaggi ai quali nonostante gli applausi del pubblico nessuno ha deciso di dare eco.
Sono emozioni forti dicevo che ho deciso di condividere con voi attraverso questi scatti…
Gallicianò è un posto che nel tempo ho imparato ad amare. Un luogo per certi versi ruvido, asciutto, ricco di costratti stridenti e per questo così autentico e straordinario.
Nonostante con orgoglio possa sentirmi a casa li, non avevo mai assistito alla festa del Santo Patrono, durante la quale la statua in gesso, da poco restaurata, sfila per le strette vie del borgo fino a raggiungere il belvedere del Calvario per poi fare ritorno nella chiesa principale del paese.
La prima cosa che colpisce arrivando a Gallicianò, dopo aver percorso i tornanti che dalla fiumara risalgono il crinale, è l’assenza del silenzio che in genere rende quasi ovattato il trascorrere del tempo all’interno dell’acropoli dei greci della Bovesia.
Nei giorni della festa le voci invece tornano ad animare queste contrade, come le urla dei più piccoli che si riprendono gli spazi che per generazioni sono stati dei loro padri.
Ma nonostante il tempo venga scandido diversamente e con un ritmo che sembra più lento, è già tempo di inizare e dopo i primi spari San Giovanni Battista scende le scale che separano la chiesa principale di Gallicianò da Piazza Alimos per poi procedere per tutto Catuchorìo.
La statua, deviando all’altezza del piccolo museo etnografico raggiunge il luogo dove un tempo insisteva la chiesa di San Leonardo. I portatori compiono tre giri in senso orario e tre in senso antiorario, un tempo accompagnati da musiche popolari, oggi da musiche sacre.
Mentre ormai le ombre si allungano perchè il giorno cede il passo alla sera, il Santo adesso portato a spalla dalle donne del borgo raggiunge il Calvario, prima di riabbracciare il paese per proteggerlo ancora.
Il popolo di Gallicianò, che celebra il suo Santo ad agosto, in occasione del martirio e non a giugno, quando invece se ne ricorda la nascita, lega anche quest’aspetto alla vita di queste contrade aspromontane.
Un tempo qui, dal mese di giugno, si era impegnati nelle attività di mietitura ed ecco spiegato perchè la festa si svolge ad agosto e perchè ancora oggi si usa lanciare chicchi di grano al passaggio del Santo in processione e lasciare sempre qualche spiga vicino alla statua durante l’anno.
Ormai però è sera e la statua del Santo dopo aver regalato le ultime emozioni ruotando nuovamente nel sagrato, sulle spalle degli emozionatissimi portatori, con canti vibranti torna nella chiesa simbolo del borgo.
Le due poleis di Reggio e di Siracusa in antico hanno spesso incrociato i fili delle proprie storie e talvolta anche in modo burrascoso. Basti pensare all’assedio di undici mesi del tiranno siracusano Dionisio I o alla rifondazione di Reggio con il nome di Febea ad opera del figlio Dionisio II.
Oggi però i due centri, ed in particolar modo le istituzioni museali, il MArRC per la sponda calabra ed il Paolo Orsi di Siracusa, dialogano per porre in essere una mostra che accende dei meritatissimi riflettori su una figura fondamentale per la conoscenza del passato in Magna Grecia ed in Trinacria.
La mostra “Paolo Orsi, alle origini dell’ archeologia in Calabria e Sicilia” è una narrazione dell’incredibile vita del roveretano, curata dai due direttori Carmelo Malacrino e Maria Musumeci, che prende le mosse da una presentazione di questa incredibile figura di studioso per poi accompagnare il visitatore in altre quattro sezioni a tema:
Alla ricerca delle origini, la preistoria e la protostoria
Dall’eta arcaica all’ellenismo, l’archeologia delle città greche
La grandezza dell’Impero, la Calabria e la Sicilia in età romana
La luce sul medioevo, bizantini, arabi e normanni
Il percorso espositivo che prende le mosse da due capolavori assoluti ritrovati da Paolo Orsi, la Gorgone in corsa ed il celebre Cavaliere di Marafioti, permette il racconto delle varie attività poste in essere dallo studioso, dalla ricerca attenta sulle fonti per poi passare alla “verifica” sul campo, all’analisi stratigrafica dei siti, ma anche il costante impegno nella tutela dei reperti e all’affermazione del principio di legalità contrastando i commercianti di opere antiche e permettendo l’acquisto di numerosi reperti al patrimonio dello Stato.
La mostra racconta anche la storia umana di Paolo Orsi che nato in territorio non ancora italiano a Rovereto (il Trentino nel 1859 era ancora austriaco) arrivò in terra siciliana nel 1888 dopo aver vinto un concorso ad Ispettore di 3′ classe degli scavi, musei e gallerie del Regno. Da li partirà una vera e propria rivoluzione negli studi dell’antichità tra Sicilia e Magna Grecia che a fatica viene contenuta in questa riproduzione grafica che elenca i luoghi del grande archeologo.
Tanti i pezzi estremamente interessanti provenienti dal museo di Siracusa, oltre alla già citata Gorgone, numerosi i reperti individuati in sepolture o nelle città greche siciliane.
Altro punto di forza della mostra sono i reperti che provengono direttamente dai ricchissimi depositi del museo reggino (restaurati adesso fanno bella mostra di se), come i marmi di epoca romana e soprattutto i reperti di XII sec. d.C. provenienti da Santa Maria di Terreti.
Proprio nell’ultima sala espositiva dedicata al c.d. Medioevo, che permette uno dei rarissimi casi di presa di coscienza diretta con un periodo storico spesso trascurato ma che fu fondamentale per Reggio e la Calabria, un altro passaggio sull’Orsi uomo nella fase finale del suo rapporto con queste terre che viene reso dal racconto di Paolo Enrico Arias (altra figura di primo piano per gli studi antichistici):
“(…)Egli partì definitivamente da Siracusa nel mese di maggio del 1935(…)Eravamo alla stazione marittima della città(…); lo aspettavamo sotto la pensilina davanti al vagone-letto per Roma che egli guardòcon un’espressione di profonda antipatia e mestizia. Avanzava a passi lenti, con il bastone e le pantofole grandi in cui i piedi che avevano tanto camminato su e giù per il Trentino e per la Sicilia e la Calabria non riuscivano quasi a stare più. Lo reggeva l’inseparabile restauratore Giuseppe D’Amico, compagno delle sue esplorazioni dovunque(…) Il grande vecchio si fermò a contemplare tutti noi;(…) durante tutto il viaggio era rimasto vicino al finestrino a mormorare i nomi a lui ben noti di tutti i paesini che si vedevano dal treno (…) E ripeteva: non li vedò più.
La mostra rimarrà attiva al museo reggino fino all’otto di settembre, mantenendo saldo nel nome di Paolo Orsi, il legame tra Sicilia e Magna Grecia per tutta la stagione estiva. Con buona pace di Dionisio I, oggi queste due città riprendono un dialogo “mediterraneo” che non può che far bene ad entrambe.
Sono tanti i luoghi che meritano di essere visitati a Gallicianò oltre alle bellezze naturalistiche ed i tanti sentieri, il borgo contiene alcune unicità straordinarie come la Chiesa di San Giovanni Battista, la Sorgente dell’Amore, l’Anfiteatro “Patriarca Bartolomeo” o la chiesa ortodossa Madonna di Grecia.
Oggi però ci soffermiamo sul museo etnografico Anzel Merianù (studiosa greca di etnografia, autrice di diversi saggi) che offre uno spaccato chiarissimo della vita delle nostre aree interne.
Il museo nasce dall’iniziativa del signor Raffaele Rodà, oggi vera anima del museo, e di altri volenterosi che hanno dato vita ad una delle collezioni più interessanti della provincia reggina e non solo.
La struttura oggi adibita a museo, fu in passato sede della scuola elementare, suddivisa in due ambienti che permettono al visitatore un salto nel passato di questa terra.
Nella sala “A” vengono conservati gli utensili e gli oggetti tipici della vita di campagna, curioso trovare la famosa “libretta” (registro di credito) con ancora annotati i conti dei vari clienti, come è facile perdersi nel fascino dei disegni delle bellissime coperte di ginestra.
La sala “B” riproduce invece l’ambiente domestico con tutti gli oggetti di vita comune, ma l’attenzione non può che ricadere sulla riproposizione dell’antico “cannucciato” posto a protezione del letto.
Ma con lo scritto risulta difficile trasmettere il fascino di questa collezione, la curiosità può essere solo saziata con una visita a questo piccolo gioiellino.
Passeggiare per le viuzze silenti di Ferruzzano è quasi un’esperienza mistica, i battenti delle finestre spostati dal vento interrompono silenzi con sottofondo di lavoro dei campi.
Poche anime in quelle case che ancora raccontano di un tempo differente, lento, scandito da altri riti quotidiani.
Queste stesse sensazioni diventato quasi aplificate nella frazione di Saccuti dove lo scenario diventa surreale, perchè la senzazione è quella che gli abitanti siano appena andati via chissà per quale motivo, lasciando tutto li ad attendere un futuro improbabile ritorno.
Oggi, solo il piccolo Paolo ed il fratellino permettono di ascoltare voci di bambino in quest’angolo interno della nostra provincia, mentre nella metà degli anni venti del ‘900 Zanotti Bianco si prodigava per la costruzione dell’asilo.
Zanotti Bianco, scrittore, archeologo e sagista fu uomo illuminato che tanto diede alla fascia ionica aspomontana, creò tantissimi asili, scuole, ambulatori e riconobbe la necessità di fondare riviste e pubblicazioni che permettessero lo studio e la diffusione del patrimonio culturale Calabrese.
E’ lo stesso Zanotti Bianco che ci descrive nel suo “TRA LA PERDUTA GENTE” i momenti che portarono alla costruzione di ben due asili tra Ferruzzano e la frazione di Saccuti.
Il racconto è “Pazza per amore” dove l’autore intreccia il suo viaggio tra Brancaleone, Bruzzano, Ferruzzano e Saccuti con le vicende di una povera donna folle per un amore finito e la sua tragica fine.
In questo racconto Zanotti Bianco ricorda: “E mi inerpicai per la strada sassosa che conduce a Saccuti. Dopo il terremoto del 1907 una commissione geologica aveva dichiarato inabitabile Ferruzzano e il Genio Civile aveva costruito le nuove case baraccate nella frazione di Saccuti. Ma più che la forza dell’abitudine, la maggior vicinanza ai pascoli del monte Trizzo, alle terre sul versante del La Verde, aveva ricondotto coloro che s’erano salvati da quel disastro a sistemarsi tra le rovine, riattando alla meglio, con legname, i vani lesionati. Sicché quando ci decidemmo ad aprire una Casa dei bambini a Saccuti, quei di Ferruzzano accorsero impermaliti: Siamo noi la maggioranza del comune: se fate l’asilo alla frazione vi capiterà male.
E così aprimmo due asili, uno in alto al centro, l’altro alla frazione”.
Oggi quelle due strutture sono ancora in piedi e ci tramandono gli echi di questa storia di una provincia povera, di un mondo fiero e contadino, disperato e innamorato come quella umile donna del racconto “Pazza per amore”.
Placanica ha tutte le caratteristiche per affascinare i viandanti che si accostano al centro, una posizione invidiabile incastonata com’è tra valli che degradano talvolta dolcemente altre volte a picco, un patrimonio monumentale invidiabile con il castello che troneggia sull’intero borgo ed infine un passato tutto da raccontare che vide a Placanica personaggi illustri come Campanella che proprio nel convento domenicano di Placanica prese i voti.
Così ad esempio il 18 agosto del 1847 Edward Lear descriveva il borgo nel suo “Diario di un viaggio a piedi”: “Lasciamo la città alla nostra sinistra (si riferisce a Stignano), ci siamo precipitati in una profonda vallata fra pendii coperti di oliveti, e, arrampicandoci sopra il lato opposto, siamo subito arrivati a Motta Placanica, una delle vere caratteristiche città calabresi. Come le altre in queste strane colonie, questo posto non ha profondità, ma è come se fosse solo una superficie, essendo le case costruite un sopra l’altra sugli orli ed in crepacci, sulla facciata di una grande roccia sollevata in una cima, e il suo più alto pinnacolo adornato da un moderno palazzo. Non si può immaginare lo strano effetto che fanno queste città, persino per quelli abituati alle irregolarità delle architetture del sud Italia; Motta Placanica sembra costruita per essere una meraviglia per il passante”.
Il borgo mantiene intatta questa capacità di stupire i visitatori che si avvicinano a questo piccolo gioiello purtroppo poco conosciuto ma dalle potenzialità turistiche infinite. Placanica offre un percorso ad anello che parte poco più su della piazza del Municipio dedicata all’eroe di guerra Tito Minniti (si, proprio l’aviatore al quale è intitolato l’aeroporto reggino che ebbe natali a Placanica per poi morire in Africa catturato dopo l’abbattimento del suo veivolo impegnato in ricognizione) nei pressi dell’arco in muratura che sostituì il ponte levatoio che permetteva l’ingresso nella cittadella fortificata e prosegue poi nel convento domenicano, per le vie recentemente abellite con splendidi murales, alla torre urbica per poi giungere al castello ed alla chiesa di San Basilio Magno che rappresenta una perla che da sola vale la visita del borgo.
Il percorso poi si conclude con la discesa verso i resti del convento francescano e la torre difensiva e campanaria con i resti della cinta muraria. Placanica ha il fascino antico di un borgo che trae la sua origine in secoli remotissimi probabilmente nel X d.C. ed il cuore medievale del borgo è ancora forte e palpitante e permetterebbe, con un connubio legato al turismo religioso prevalentemente orientato al santuario della Madonna dello Scoglio, margini di crescita economica considerevoli. Le difficoltà chiaramente non mancano ma potremmo prendere come esempio la famiglia dei Clemente che resero Placanica un borgo ricco d’arte e seppero essere magnanimi con la popolazione. Oggi, non c’è da aspettare la benevolenza di un “nobile” ma invocare a gran voce le forze giovani e positive di quel territorio che come dimostra l’ass. Innovus sono già in cammino.
L’antico borgo di Amendolea riesce ad attrarre per tante ragioni, ad esempio per il suo irresistibile fascino, per i silenzi tra le case dirute con l’affaccio su quel frammento di donjon pericolante da anni, o ad esempio per quegli scorci sul torrente sottostante che sembra quasi una lingua d’argento tra i fianchi verdastri ed aspri dei crinali che la contengono.
Per me negli anni quel luogo è diventato un pezzo della mia vita, forse li sono nate diverse passioni e spunti di riflessione. Per questo vi confesso che nel parlare di quest’angolo di Calabria mi sento fortissimamente di parte.
Questo e molto altro è Amendolea per me e per i curiosi visitatori. In questo articolo soffermiamoci su un’altra delle sue caratteristiche, sul numero così elevato di edifici sacri. Di fatti un borgo così piccolo presenta cinque edifici di culto.
La chiesa più grande, quella dell’Assunta, insiste su di un pianoro panoramico all’estremità opposta del castello e destinata ai riti del popolo. La nobiltà invece, disponeva all’interno dell’edificio fortificato di una cappella palatina, proprio alle spalle della grande sala fenestrata.
La cappella presenta ancora oggi residui d’affresco.
Appena fuori le mura del borgo, sono facilmente individuabili i ruderi delle chiese di Santa Caterina e quelli della chiesa di San Sebastiano con il suo splendido campanile.
Il fascino di questo luogo però non ha raggiunto il suo massimo. Un po’ più discosta dal centro del borgo, ma di poco, sulla strada che da Amendolea ripida porta a Bova, si incontra il vecchio segnale che indica la salita per giungere alla chiesa di San Nicola.
La chiesetta, dell’ XI sec., allo stato di rudere, è di piccole dimensioni, manca del tetto e di quasi tutta la parete meridionale dove un tempo si apriva l’ingresso.
L’edificio presenta tre absidi con quella centrale che presenta una piccola apertura e le due laterali, prothesis e diaconicòn, che sono i veri gioielli di questo antico edificio.
Le absidi laterali infatti, presentano ancora oggi (se ne invoca a gran voce un intervento conservativo) residui di affreschi. Se nell’abside di destra questi restano appena visibili, nell’abside di sinistra l’affresco è maggiormente apprezzabile e si individua una figura intera di Santo con paramenti sacri nell’atto di benedizione.
Il borgo di Amendolea e le sue bellezze difficilmente tradiscono le attese, l’unica cosa da portare da casa resta la curiosità, per il resto, la magia e la storia di quei luoghi giustificano sempre il viaggio.
Il Parco Museo Musaba è esso stesso un’ opera d’arte in continua evoluzione, un’ idea ed una visione che si plasma e si modifica da 50 anni.
E’ il 1969 quando Nik Spatari e Hiske Mass iniziano questo lungo viaggio che oggi noi conosciamo con il nome di Musaba.
Un parco, un museo ed un laboratorio dove arte, paesaggio, storia e architettura si fondano in un’area che oggi è di 7 ettari ma che in principio consisteva nell’area dove oggi insiste la foresteria e la struttura ad essa vicina che in passato fu la stazione della Calabro-Lucana.
Tantissime le opere qui custodite frutto anche di prestigiose collaborazioni internazionali o parto del genio di Spatari, come i mosaici della foresteria o l’Ombra della Sera, monumentale struttura di 15 metri, la Rosa dei Venti e l’Opera Universale divenuto simbolo del museo con la sua mole ispirata forse ad una vela o una cattedrale o ancora a dei raggi solari che si dipanano da un punto per irradiare il tutto.
La grangia vista dalla foresteria
Il capolavoro però è custodito nella cappella della grangia di Santa Barbara dove Spatari ha concepito il “Sogno di Giacobbe” quello che viene definito la “Cappella Sistina Calabrese”.
Spatari si rivede in Giacobbe e nei doppi che caratterizzano la vita del terzo patriarca. L’arista lo raffigura con i suoi tratti durante tutti gli episodi della complessa vita del personaggio bibblico.
Spatari ci racconta di se attraverso quest’opera ma anche attraverso tutto il Musaba permeato della sua concezione di commistione di principi antichi interpretati da lui e tramandati ai posteri. Chiarissimo esempio è l’utilizzo dei triangoli nelle sue opere, rimando al pitagorismo ed a Pitagora, che Spatari individua come fondamentale per la cultura mediterranea, e che servono all’artista a dare profondità.
I resti della grangia
Le vele del sogno di Giacobbe
Il sogno di Giacobbe
Ma la mission del Musaba è anche quella di rimanere un vero laboratorio rinascimentale nel quale il maestro trasmette la sua arte agli allievi. Questo al parco è possibile attraverso stage o campi didattici aperti ad artisti ed anche alle scuole.
E’ una fortuna per la nostra terra poter ospitare un luogo come il Musaba. L’esempio di Nik ed Hiske ci parla di tenacia, di obiettivi da raggiungere e di visione orientata verso il futuro ma con i piedi sempre ben piantati nella natura e nella storia dei luoghi.
Difficile contenere la storia e le bellezze di una città storicamente importante come Locri in un breve articolo ma proverò a raccontarvi almeno gli albori di quella che fu la patria di Zaleuco il primo legislatore secondo Strabone. Non esiste unanimità di vedute sulla data di fondazione di Locri. La tradizione storica ci ha tramandato tre differenti momenti per tale evento: Eusebio, vescovo di Cesarea (IV sec. d.C.), ci indica l’anno 673 a.C.; Gerolamo fa risalire la fondazione al 679 a.C.; Strabone, non specificando la data, riferisce che la fondazione avvenne poco dopo quelle di Siracusa (733 a.C.) e di Crotone (709 a.C.), quindi entro la fine dell’VIII sec. a.C. o nei primissimi anni del VII sec. a.C.
Vi è invece concordia su quale sia stato il punto di sbarco dei coloni provenienti dalla regione della Locride, (quella della Grecia centrale), ossia Capo Bruzzano. Quest’ultima località fu abbandonata qualche anno dopo poiché i coloni, dopo aver regolato i conti con le popolazioni indigene, si spostarono di qualche decina di km a nord.
I locresi, dopo lo sbarco in terra calabra, strinsero accordi con le popolazioni locali e successivamente (violando tali patti), annientarono completamente l’antico abitato di Janchina.
Fin dall’antichità Locri è ricordata per l’attività legislativa di Zaleuco (VII sec. a.C.), redattore del primo codice europeo di leggi scritte, che sembra essere rimasto in vigore per oltre duecento anni.
Verso la fine del VII a.C. tensioni sociali sorte all’interno della colonia, forse per l’aumento demografico, spinsero l’aristocrazia locrese a cercare nuovi spazi sul Tirreno e vennero fondate le due subcolonie di Hipponion (Vibo Valentia) e Medma (Rosarno).
Questo però chiaramente stringeva la vicina polis di Reggio in un abbraccio soffocante che diete nei secoli il la a scontri frequenti tra le due potenze in competizione tra di loro non tanto per le estensioni territoriali, quanto per il predominio sui porti strategici utilizzati dalle rotte che collegavano la madre patria con il mediterraneo occidentale. Si potrebbe citare in tal senso Anassila nel V a.C. con il suo tentativo riuscito di allargare i confini reggini fino al promontorio di Eracle, l’odierno Capo Spartivento
Ma tornando alla storia di Locri poco prima del 550 a.C. sappiamo essersi verificata la vittoria che la città riportò in alleanza proprio con i Reggini contro Crotone nella battaglia della Sagra (odierno Allaro o Torbido). A questo proposito, le fonti ricordano l’intervento miracoloso dei Dioscuri, protettori della città, che avrebbero aiutato i 10.000 Locresi ad avere il sopravvento sulle soverchianti schiere dei Crotoniati.
I tesori della storia Locrese oggi fanno le fortune di numerosi musei non solo in Italia ma il cuore pulsante di questa polis è ancor oggi visitabile nel suggestivo sito archeologico poco distante dal centro urbano moderno e nel museo in loco o in quello recentemente allestito a Palazzo Nieddu del Rio.
Sono emozioni fortissime quelle regalate dal sito delle “Cento Camere” o dal Teatro greco/romano o quelle regalate dal Casino Macrì, e poi le incredibili immagini dei Pinakes e tantissimo altro ancora.
La statale 106 é sicuramente uno degli assi viari più controversi e pericolosi della nostra Penisola. Se percorsa con prudenza riesce a regalare oltre a dei paesaggi unici, dei siti archeologici capaci di regalare emozioni fortissime.
Poco dopo aver lasciato Bianco provenendo da Reggio e a circa 17 chilometri ridiscendendo da Locri facendo molta attenzione, si scorge qualche sparuta segnaletica che indica la presenza di un sito archeologico dal fascino indescrivibile.
La villa romana di contrada Palazzi di Casignana è senza ombra di dubbio il sito di epoca romana più interessante della provincia di Reggio.
Sala delle Nereidi
La sua storia recente è molto travagliata, basti pensare a come la ss 106 tagli a metà il sito. Pensare meravigliosi mosaici sotto centimetri di asfalto fa sicuramente alzare la pressione ma tant’è.
Già nel 1956 si ha notizia di rinvenimenti di una colonna di marmo, oltre chiaramente ad alcune murature in affioramento. Si dovrà aspettare il 1964 per l’ufficialità del rinvenimento, quando durante i lavori di scavo per la realizzazione di un acquedotto vennero riportati alla luce gli ambienti termali della villa.
Gli scavi archeologici proseguirono nel 1965 e nel 1966 e dopo una lunghissima pausa ripresero nel 1980 in modo sistematico e continuo in tutta l’area termale.
Sul finire degli anni ’90 e con i primi anni del 2000 inizia poi lo studio di quella che poi verrà denominata area residenziale (la parte oltre la 106 verso il mare).
La villa, ha avuto una continuità di utilizzo lunghissima, testimoniata dalle tante fasi edilizie che si sono susseguite dal I al IV d.C. La superficie indagata attualmente si estende per 8000 mq, ma si ritiene che le dimensioni del sito raggiungano i 15 ettari.
La villa, che gode un ottimo stato conservativo, mette in mostra la grande abilità di maestri mosaicisti testimoniando una certa opulenza dei proprietari.
La parte termale, sa affascinare con i suoi ambienti finemente decorati, come la sala delle Nereidi, il frigidarium con i suoi rombi prospettici e le lunette a coda di pavone o ancora il meraviglioso opus sectile della sala rettangolare.
Praefurnia
La parte residenziale con le fondamenta di due torri, che probabilmente servivano come punto di controllo e difesa verso il mare, presenta negli ambienti pavimenti musivi di altissimo pregio come nella sala delle quattro stagioni o in quella di Bacco.
Il gioiello di Casignana sa stupire ed affascinare, attende solo la visita per trascinare il curioso indietro nel tempo con le sue tante particolarità. Un’ impronta vivida e leggibile del nostro passato, come quella di quel fanciullo eternata nel pavimento, ancora oggi visibile nella villa.