Viaggio in Calabria

Ferruzzano sei come il primo amore, non ci si può scordare

Ferruzzano per me è sempre stato un paese particolare. Incrocio spesso sul mio percorso il suo nome ed i suoi abitanti. Imparai a conoscerlo ancora prima di visitarlo attraverso i racconti della nonna materna, ed imparai a conoscere quegli usi antichi come quello di realizzare dei casotti in spiaggia, I LOGGI, dove ci si traferiva per lunghi periodi in estate, di quella vita misera che diventava ricca di significato negli occhi di chi quel passato l’ha vissuto ed ha visto in qualche misura l’inizio di quello spopolamento verso la Marina. Al tempo prendere il treno per andare a Reggio sembrava quasi un viaggio lunghissimo, quei racconti che certe volte usano termini di un dialetto quasi incomprensibile.

E’ un’area questa carica di storia, basti pensare alla vicinanza con Capo Bruzzano, probabile approdo dei “coloni” greci che dopo andarono a fondare Locri, o come non ricordare i numerosi ritrovamenti preistorici che in quest’area spesso vengono segnalati.

L’origine della frazione interna di Ferruzzano non differisce nelle motivazioni da tutti gli altri centri limitrofi che ebbero la necessità di una maggiore difesa da quel mare che prima fu incredibile collegamento di civiltà.

Il borgo fu casale di Bruzzano, ed appartenne a numerose famiglie della nobiltà locale come ad esempio la famiglia Marullo della contea di Condojanni, ai Canotto fino al 1592. Passò poi agli Staiti fino al 1674 ed infine ai Carafa che lo tennero fino al 1806, data nella quale vi fu l’eversione della feudalità.

Con l’istituzione dei Comuni del 1811 Ferruzzano fu elevato a comune ed incluso nel Circondario di Staiti che in quel momento storico diviene il centro più importante dell’area.

Ferruzzano venne pesantemente danneggiato dai terremoti del 1783 e da quello del 1907. Una testimonianza diretta dell’attaccamento e della combattività dei sui abitanti ci viene riportato da Umberto Zanotti Bianco che nel suo racconto “Pazza per amore” contenuto nella raccolta “Tra la perduta gente” all’inizi degli anni ‘20 del ‘900 così racconta:

“Dopo il terremoto del 1907 una commissione geologica aveva dichiarato inabitabile Ferruzzano e il Genio Civile aveva costruito le nuove case baraccate nella frazione Saccuti. Ma più che la forza dell’abitudine, la maggior vicinanza ai pascoli del monte Trizzo, alle terre sul versante del La Verde, aveva indotto coloro che si erano salvati da quel disastro a sistemarsi tra le rovine, riattando alla meglio, con legname, i vani lesionati. Sicché quando decidemmo ad aprire una Casa dei bambini a Saccuti, quei di Ferruzzano accorsero impermaliti:- Siamo noi la maggioranza del Comune: se fate l’asilo alla frazione vi capiterà male.

E così aprimmo due asili…”

Oggi Ferruzzano si è definitivamente spostato nella frazione marina con uno sviluppo caotico a ridosso della statale 106 davanti ad un mare ricco di voci nuove ed antiche con una vocazione turistica balneare.

La vera sfida però, è riscoprire quel passato nell’entroterra che oggi è scarsamente abitato e conserva intatto nel silenzio di quelle viuzze strette, un passato contadino ed orgoglioso che deve essere raccontato per non andar perduto.

Sfida ancor più affasciante è rappresentata dal sito della grotta rupestre di Iuderìu o dal bosco di Rudina e dai suoi palmenti che ci raccontano della laboriosità e della ricchezza di quest’area.

I palmenti sono depositari dell’antico sapere della vinificazione. Servivano a trasformare l’uva in mosto e si costituiscono da due vasche tra loro collegate, la superiore prende il nome di buttiscu e quella inferiore di pinaci. Questi sistemi hanno avuto una continuità di utilizzo per secoli facendo le fortune di quest’area che ha esportato vino in ogni angolo del Mediterraneo.

Un passato suggestivo, una terra straordinaria carica di storia e panorami mozzafiato, che decisamente riescono ad affascinare i visitatori. Per averne un semplice esempio, basta affacciarsi dalla piazza principale, quella della chiesa di Ferruzzano Superiore. Da questo terrazzo a quasi 450 mt d’altezza, lasciando alle spalle la chiesa che nonna ricorda baraccata il giorno del matrimonio e che in facciata riporta la scritta:

“Ferruzzano sei come il primo amore, non ci si può scordare”.

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Viaggio in Calabria

Le meraviglie della Collina di Pentimele

Esiste un luogo a pochi passi dal centro storico della città di Reggio Calabria che forse più di ogni altro potrebbe diventare vetrina delle potenzialità ecoturistiche della nostra terra.
Mi riferisco a quel balcone naturale che risponde al nome di Collina di Pentimele.
Tralasciamo il naturale snodo viario che dalla zona “Serpentone” porta agilmente alla sommità di questa dolce altura. Decidiamo di affrontare il breve dislivello che dallo snodo della tangenziale Via Lia, permette con qualche minuto di fatica, di percorrere brevemente il Sentiero Italia e godere di uno dei paesaggi più incredibili sull’intera città.

La città vista da Pentimele


Già da solo, il Sentiero per eccellenza potrebbe bastare ad una oculata politica attenta ad un approccio dolce alle aree interne a focalizzare l’attenzione su questi luoghi, ma andiamo oltre.
Non percorriamo che qualche centinaio di metri di questo sentiero, pensato già negli anni 80 e poi realizzato un decennio dopo, con l’obiettivo di collegare l’intero territorio nazionale da nord a sud, isole comprese. Fermiamoci su queste alture.
Qui, il mito ci racconta dell’origine di questo nome particolare riallacciandosi alla storia di cinque splendide fanciulle. Le donne erano gemelle perfettamente identiche ed era possibile distinguerle solo attraverso il canto che pervadeva l’intero circondario e da qui la denominazione della collina dei cinque canti.
Dal mito alla storia poi il salto è brevissimo. Intatte su queste alture si conservano le ultime pagine delle fortificazioni dello Stretto. Silenti testimoni di uno dei momenti che riunificarono nuovamente la storia delle due sponde di questo incredibile braccio di mare, i forti ottocenteschi attendono l’occasione per esprimere a pieno le loro potenzialità.
Opere sulle quali negli anni si sono incrostati falsi miti come l’improprio nome “umbertini”, di fantasiosi collegamenti ecc…


Queste due incredibili opere facevano parte del complesso sistema voluto come ammodernamento della protezione della costa dal neonato Regno d’Italia negli anni 60 dell’800 per poi vedere l’avvio dei lavori di realizzazione negli anni 80 dello stesso secolo.
La sola sponda calabrese ospita ben otto fortezze di varia dimensione alle quali nel ‘900 ne venne aggiunta un’altra a Modena. Questa risponde a tecniche edilizie e ad esigenze belliche che in quei decenni si modificarono a ritmi vorticosi.
Oggi i due forti di Pentimele dopo un’opera di ristrutturazione conservativa aspettano una sorte definitiva che mi auguro possa essere proficua per il territorio. Immagino ad esempio un luogo nel quale si possa conservare, studiare e tramandare la memoria delle fasi ultime della nostra storia, dall’800 al ‘900.
Proprio Pentimele fu luogo testimone di quelle pagine.
Proprio la rada sottostante ospitò parte della spedizione che mosse alla volta della Sicilia quando i franco-napoletani, all’inizi dell’800, pianificarono l’occupazione della Sicilia per strapparla ai borbonici che protetti dai britannici ripararono sull’isola.
Dei forti ottocenteschi abbiamo già parlato, ma Pentimele anche nella fase successiva ospitò strutture difensive che rispondevano al mutato quadro di riferimento dell’“arte della guerra” e proprio in quel luogo incantato vennero edificate alcune postazioni per la difesa contraerea della città oltre a tutta una serie di strutture fondamentali allo sforzo bellico italiano.

Non dimentichiamo che nel 1943 il fronte della Seconda guerra mondiale passò proprio alle nostre latitudini.
Fa impressione vedere gli effetti dei bombardamenti, riecheggiano alcune sciocche considerazioni di chi la guerra non l’ha mai vissuta e banalmente la invoca.

Gli effetti di uno “spezzonamento”


Stona ancora di più sul far della sera quando da questo luogo quasi onirico si riesce ad apprezzare una visuale impareggiabile sulla Città.
Abbiamo bisogno di visione unitaria e di utilizzo economicamente orientato affinché tutta questa memoria possa diventare anche utile per il territorio che l’ha vissuta ed oggi quasi dimenticata.

Viaggio in Calabria

Un gioiello chiamato San Giorgio Morgeto

Esiste un luogo nella provincia di Reggio Calabria che non ti aspetti. Uno di quei luoghi che quando vai via senti ripetere dalla compagnia quella frase quasi offensiva; “non sembra manco di essere a Reggio”. Come se per condanna divina la bellezza non dovesse albergare in queste contrade che invece al netto di qualche decennio di inetta incapacità a riconoscerla ha sempre vissuto di una bellezza estrema, magari povera, ma pur sempre dignitosissima.
Il luogo di cui vi voglio parlare in questo appuntamento è San Giorgio Morgeto.
L’incanto inizia a colpire il viandante già nell’avvicinamento al borgo, con quelle case così tenacemente aggrappate a salitelle e vicoli che improvvisamente cedono il passo ai ruderi dei bastioni di quello che fu il Castello di San Giorgio.

Castello di San Giorgio Morgeto

L’origine del centro si perde come spesso accade alle nostre latitudini nella notte dei tempi, ma questo borgo ci da la possibilità di approfondire un periodo che spesso viene trascurato nei nostri racconti dei luoghi. Mi riferisco a quel lunghissimo lasso di tempo che precede l’arrivo nell’ VIII sec a.C. di gente proveniente dalla Grecia che diedero vita a quella che impropriamente spesso viene definita come colonizzazione ma che in realtà darà il via alla creazione di città nuove “staccate” dalla terra di origine.
Il nome stesso di questo centro ci da spazio per parlare di Morgete figlio del mitico Re Italo che furono “fondatori” di quei gruppi definiti Itali e Morgeti (che prima venivano appellati come Enotri).
Queste popolazioni “indigene” insieme ad altri gruppi come Siculi e Ausoni erano già qui prima dell’arrivo dei greci e convissero con loro per molti secoli.
E’ interessante vedere poi come molte fonti anche autorevolissime in qualche modo rileggano nella presenza degli Enotri in punta di Stivale una legittimazione del possesso di questa terra ricordando l’origine greca di quelle genti.
San Giorgio poi assunse il suo nome e buona parte della sua conformazione attuale nel corso del medioevo.


Pare proprio che il centro venne risparmiato dalle incursioni saracene per intercessione del Santo della Cappadocia ed i cittadini decisero di acquisire la nuova denominazione che prima invece ricordava il nome del re Morgete.
La denominazione attuale invece si acquisì dopo l’unità d’Italia con l’affiancamento alla denominazione di San Giorgio anche di Morgeto quasi a chiudere un cerchio plurimillenario.
Il borgo oggi vanta oltre ad un dedalo inestricabile di vicoli, tutta una serie di luoghi carichi di fascino.
Oltre al già citato castello e a quella che viene definita “Fontana Bellissima” con la sua storia quattrocentesca, sono decisamente i grandissimi palazzi gentilizi a colpire l’immaginario del visitatore.
Oggi resi ancor più affascinanti da un’aria quasi di aristocratico senso di decadenza, questi palazzi ci
parlano di un passato importante ancora oggi testimoniato da imponenti portali e gusto
ricercatissimo nelle rifiniture.


Ad essere sinceri però, e non per vicinanza al santo al quale è dedicato, è sicuramente il convento dei domenicani con la vicina chiesa dell’Annunziata ad incuriosirmi ed affascinarmi di più.
Divenuto ormai anche il cantiere monumento storico all’inconcludenza e all’insipienza dei “manovratori”, un tempo questo angolo di Calabria era uno dei centri culturali più importanti del circondario, dotato di una imponete biblioteca.
Qui si formò l’ultimo degli uomini rinascimentali, il filosofo della Città del sole, Giovanni Domenico Campanella ai più noto come Tommaso.
San Giorgio merita il tempo di una visita, merita l’attenzione del viandante, che oltre a lasciarsi rapire da una storia infinita e da paesaggi che al tramonto raggiungono la superbia, sa anche raccontare una storia viva di artigiani e di imprenditori che sanno innovare anche alle nostre latitudini.

Viaggio in Calabria

A Bagnara dove l’Aspromonte precipita nel Tirreno

Bagnara è un borgo normanno in terra greca, possiamo definirlo così questo splendido centro affacciato sul Mar Tirreno.

Nonostante si ipotizzino origini molto più remote le prime attestazioni storiche risalgono all’ XI secolo d.C. quando sotto i normanni l’area divenne prima prima uno snodo logistico e poi vide la fondazione, nel 1085 dell’abbazia di Santa Maria e dei XII apostoli nell’area della rupe “Martorano”.

Proprio in questo periodo il centro acquisisce importanza strategica per la sua collocazione geografica e per questo i normanni decisero di migliorarne le difese.

Nel secolo successivo Bagnara incrocia il suo destino con Riccardo d’Inghilterra che coinvolto nella III’ Crociata sbarcò in Sicilia per risolvere una disputa ereditaria nella quale era coinvolta la sorella Giovanna vedova di Guglielmo II.  Per far pressione e riottenere la dote della sorella da Tancredi, Riccardo, prese la città di Bagnara nell’ottobre del 1190. Alla fine Riccardo ottenne quanto richiedeva e potè ripartire per la Terra Santa.

Molto importanti per la storia del centro affacciato sulla Costa Viola furono anche le confraternite religiose. Ad esempio la seicentesca “Nobile Arciconfraternita di Maria SS. Del monte Carmelo” della quale oggi a Bagnara è visitabile un piccolo museo annesso allo splendido edificio di culto realizzato agli inizi dell’800, dopo che il precedente venne distrutto dal devastante terremoto del 1783.

Oggi il borgo ha tanto da offrire, qui è semplice mescolare le attrattive che singolarmente si possono trovare in moltissimi centri ma che qui trovano quasi una sintesi perfetta. Il mare certo presenta la vocazione fondamentale ma non bisogna trascurare l’incredibile ricchezza della parte interna, raggiungibile rapidamente e dalla quale si dipanano percorsi Trekking che tolgono il fiato.

Un borgo però che forse più di altri richiede la fruibilità dei suoi luoghi identitari. Con un semplice percorso a piedi sono facilmente raggiungibili tutte le attrattive di questo centro che digrada rapidamente verso il mare, ma spesso raggiunti questi luoghi ci si può solo fermare ad ammirare gli incredibili esterni come quelli di Villa de Leo o del vicino Castello Ruffo che offrono comunque uno spettacolo incantevole a picco sul mare ma che magari meriterebbero migliori fortune.

Fontana monumentale che ricorda l’arrivo di Garibaldi a Bagnara

Le mie interviste

Ettù Parànu – Dove suonano ancora le vallate

Era il 2019 quando Davide Carbone e Freedom Pentimalli lanciavano il loro primo lavoro comune dal titolo “Kalavria la terra dei greci di Calabria”.

Un racconto della nostra terra con una prospettiva diversa rispetto a quelle ormai ingiallite alle quali abbiamo fatto l’abitudine.

La linea, ad un anno di distanza, viene confermata nella seconda opera dal titolo “Ettù parànu – Dove suonano ancora le vallate”.

La loro è una visione di giovani che provano a raccontare la propria terra, coinvolgendo certamente i depositari delle antiche orme, ma con una narrazione che non si ferma a questo. Nel loro esplorare, la videocamera, racconta fatti che con naturalezza si coniugano al futuro.

Ma conosciamo meglio i due ideatori di questi lavori che ci hanno condotto in questi due anni a riscoprire un elemento, quello antropico, che nella narrazione della Bovesia non può che avere un ruolo preminente.

Due storie diverse le vostre ma un forte sentimento di appartenenza a questa terra che vivete a distanze variabili.

Davide: L’amore per la Calabria mi è stato trasmesso dai miei genitori in primis, ma anche dai parenti e dagli amici con cui, nonostante la grande distanza, in un’epoca in cui ancora non esistevano smartphone e social ho creato legami molto forti, tra cui Freedom. Insieme abbiamo voluto unire la nostra passione per la Calabria, la mia per il cinema e la sua per la scrittura, provando a creare qualcosa di buono e utile per la nostra terra. Dico nostra terra perché, anche se nato e cresciuto a Monza, sono e mi sento più calabrese di molti calabresi che in Calabria ci vivono.

Quando ogni estate scendo nel mio paesino, purtroppo mi ritrovo a constatare come un pezzo di esso sia svanito, magari nel volto o nei ricordi di un anziano che non c’è più o in case abbattute o in sprazzi di verde divenuti cenere. La Calabria che conoscevo stava svanendo, come gran parte di quella Calabria del passato per cui nutro molta nostalgia. Quindi, avendo oggi un pezzo di Calabria che sta sparendo come la cultura greco calabra, abbiamo voluto documentarne una parte.

Freedom: Si possono mettere radici ovunque, dipende dalla propria capacità di adattarsi e leggere un luogo. Se si ha però fortuna di conoscere il luogo dove generazioni e generazioni dei propri antenati hanno portato avanti la propria esistenza lasciando tracce tutt’oggi visibili, quel luogo diventa particolarmente fertile per coltivare le radici della memoria e degli affetti. Al punto da non sapere se è quel luogo ad appartenerti o se sei tu ad appartenere a lui.

Nel dubbio mi spendo per riscattarlo e, grazie alle competenze e all’arte di Davide, questo tentativo di valorizzazione può raggiungere l’attenzione di molte persone.

Qual è stato il percorso che vi ha spinti a realizzare questo secondo lavoro nel quale ancora una volta emerge un racconto attraverso gli occhi dei giovani della Bovesia?

Risposta congiunta: Nel nostro primo documentario Kalavrìa – La terra dei greci di Calabria abbiamo volutamente escluso il tema musicale in quanto pensavamo che fosse un argomento talmente ampio ed importante da meritare un lavoro a parte.

Dopo oltre un anno passato a portare in giro per l’Italia e all’estero Kalavrìa, con l’opportunità di attingere a fondi regionali, abbiamo accelerato l’ideazione e la produzione di Ettù Parànu – Dove suonano ancora le vallate lavoro non poco travagliato, ma ricco di soddisfazioni.

Quali i progetti, comuni ed individuali, coniugati al futuro?

D: Per quanto mi riguarda, essendo sempre presente l’amore per la Calabria e per il cinema, voglio continuare a mostrare alle persone l’enorme ricchezza della Calabria, dai volti della gente alle loro storie e ai loro ricordi, dai paesaggi da cartolina ai passaggi più segreti, valorizzando il patrimonio storico e culturale.

Abbiamo diverse idee per la mente che vogliamo realizzare, uscendo anche dal filone della cultura grecanica. Non nascondo che la mia ambizione è riuscire a dirigere dei film: è il mio vero sogno nel cassetto. Sono convinto che questi progetti possano essere comuni ad entrambi, vista anche la mia idea di cinema, ossia, girare film in Calabria che per tema principale non abbiano quello della ‘ndrangheta e della criminalità.

F:Prendermi cura di quelle radici greche fino a farle diventare un ponte con la Grecia contemporanea: l’attivismo nel campo della rivitalizzazione linguistica sarà un capitolo centrale dei prossimi anni. Ad esso si uniscono diversi progetti, sia quelli con Davide che riguardano la scrittura e il cinema, magari un romanzo (prima o poi), sia la promozione di attività nel cosiddetto “turismo lento”, un’altra via per valorizzare le bellezze che questa terra di Calabria offre.

Viaggio in Calabria

Le cascate Mundu e Galasìa

Per la prima volta ho messo piede sul monte Trepitò.

I miei occhi sono stati invasi da panorami totalmente diversi rispetto a quelli ai quali sono più abituato, quelli delle valli aperte delle fiumare dell’Aspromonte orientale.

Qui, in questi boschi, compi un viaggio in una natura primordiale, rigogliosa e fiera, che riesce a carpire al viandante sentimenti di stupore e meraviglia.

Il sentiero 220 inizia in un tornante dell’ ex SS111 oggi SP1 che da Molochio porta a Trepitò. L’inizio del sentiero è ben segnalato e già da quel punto panoramico è possibile ammirare una delle cascate meta di questo itinerario.

L’immersione in questo bosco è totale praticamente da subito, la faggeta assume in certi tratti linee sinuose e le liane in alcuni punti trasportano la mente ad altre latitudini.

Raggiunto un ponticello, la scelta diventa quale cascata vedere per prima? Io consiglio la Galasìa, dato che il percorso è più lungo e la risalita dalla base della cascata può essere leggermente più difficoltosa.

Questo pezzo di sentiero improvvisamente raggiunge un tratto esposto e quasi per magia la visuale, non più limitata dal bosco, spazia tra pendii lussureggianti fino alla costa.

L’incontro con la Galasìa piccola (il bivio è facilmente individuabile sia per la segnaletica che per una sorgente) e poi con la Galasia, in tutta la sua magnificenza è un’esperienza che permette una migliore lettura della montagna reggina. Spesso, questa, è stata descritta come una montagna secca ed aspra ma che invece presenta delle arterie cariche di vita.

Risalendo il versate si incocia nuovamente il bivio con il ponticello dopo un’oretta di cammino. Da qui è possibile seguire un breve sentiero che costeggia tutto il salto di 40 mt della cascata Mundu.

La visuale è arricchita anche dalla presenza di una rara specie di felce, la woodwardia radicans, un vero e proprio fossile vivente giunto fino a noi dal remoto periodo Terziario.

L’intero percorso è realizzabile in 3 ore con tutta calma, ma quel che resta di questo viaggio, accompagnerà il viandante per il resto della propria vita.

Tornerò presto sul Trepitò, per riassaporare quella diversità stridente di panorami, rispetto all’Area Grecanica reggina, che mi ha regalato ancora una volta una chiave di lettura unica, per comprendere questo microcosmo chiamato Aspromonte.

Le mie interviste

Roberto Rugiano ci parla dei “Falconieri dei setteventi”

Nel racconto catastrofistico della nostra terra, come spesso ci diciamo, emerge con ricorrenza costante il rumore dell’albero che cade e mai quello della foresta che cresce.

Vi voglio raccontare l’esperienza di Roberto Rugiano a Civita nel cosentino, la sua passione, il suo progetto e la sua voglia di “restanza”.

Un’ultima precisazione, l’intervista è stata fatta prima che iniziasse questa situazione surreale legata al coronavirus, per questo, mi piace ripartire da qui, con chi ci crede e lotta da anni.

Parlaci di te, chi è Roberto Rugiano?

Fino a qualche anno fa avevo una piccola azienda di servizi che si occupava di manutenzione del verde sia pubblico che privato.

Eravamo presenti anche nel settore dell’agricoltura biologica, ma con la crisi degli ultimi anni abbiamo dovuto prendere la decisione di chiudere l’attività.

A quel punto quella che era una passione, i rapaci, è diventata un lavoro che ha fatto vincere una scommessa.

Se dovessi definirmi mi definirei come un pazzo/folle.

Raccontaci dei Falconieri dei Setteventi, come nasce la tua attività?

Falconieri dei Setteventi è un progetto nato quasi 3 anni fa che corona una passione, la gestione di alcune specie, che si è consolidata negli ultimi 2 decenni.

Tutto nasce dal soccorso ad un rapace, probabilmente colpito da un bracconiere, al quale ho prestato le prime cure che hanno fatto nascere quella passione che ancora mi porto dentro.

Non mi definisco un falconiere tradizionale, non mi occupo di caccia o di spettacoli ma è una passione sfegatata verso questi animali. Quello che cerchiamo di fare è puntare fortemente sulla divulgazione della biologia di questi meravigliosi esemplari.

L’associazione Culturale Setteventi oggi offre un’esperienza unica, l’interazione con questi rapaci.

Qui la differenza con la falconeria tradizionale. Mentre quest’ultima non offre questa possibilità, la nostra finalità è quella di realizzare una sorta di avvicinamento con interazione tra i nostri ospiti ed i rapaci.

Una sorta di percorso didattico e interattivo legato al mondo di questi meravigliosi animali, che permetta ai più piccoli di scoprire un mondo ed ai più grandi di evocare i ricordi o le tante leggende legate a questo settore.

Cosa vuol dire per te restare in Calabria?

Vuol dire vincere una scommessa. Tanta gente viene a trovarci, curiosa di conoscere una specie, e quando va via rimane soddisfatta per aver conosciuto un mondo.

Non voglio fare come hanno fatto altri. E’ facile prendere la valigia ed andarsene per trovare di meglio. La scommessa è quella di farcela qui per valorizzare quello che abbiamo al fine di non andare via.

Con questo piccolo progetto io forse ci sono riuscito.

Viaggio in Calabria

San Giuseppe a Chianalea di Scilla

Alla fine della meravigliosa passeggiata nell’antico borgo dei pescatori di Chianalea si giunge in uno spiazzo dove una spartana facciata annuncia la presenza di una chiesa.

Spesso le apparenze ingannano. Questo è un luogo intriso di fascino e storia, ed è varcato il portone che ci accorgiamo di trovarci in uno degli angoli più antichi di Scilla.

Le origini di questo luogo di culto risalgono al luglio 1619, quando Maria Ruffo invitò a Scilla i padri Crociferi con il compito di assistere la popolazione.

Venne costruito un piccolo ospedale e, per accoglierli, un convento su di una pre-esistente chiesa bizantina. Il convento era dotato di una cappella che venne intitolata a Maria SS. Annunziata. L’attuale chiesa altro non è che la cappella di quell’antico convento.

L’edificio restò in piedi fino alla metà del XIX secolo, quando venne distrutto a seguito dei lavori per la costruzione della ferrovia.

Testimonianza delle dimensioni dell’antico edificio è la porzione di arco ancora oggi visibile nella strada che, da Chianalea, conduce alla chiesa. La chiesa subì solo qualche danno al tetto nel terremoto del 1908 e questo portò alla realizzazione del tetto in legno; sempre nel ‘900 vennero realizzate due aperture rettangolari nella parte  sinistra dell’edificio. Nel 1996 venne avviata una campagna di restauro e recupero durante la quale vennero individuati i resti di una chiesetta bizantina che, probabilmente, poi venne utilizzata come cripta: vennero anche ritrovati i resti del canonico Bovi, morto nel terremoto del 1783, che, per sua volontà, venne sepolto nella Chiesa vicino al mezzo busto di San Giuseppe.

Ph Alessandra Moscatello

Fu proprio il canonico Bovi, che era anche medico, ad introdurre il culto di San Giuseppe a Scilla nella prima metà del ‘700. La statua che oggi viene esposta nell’abside della Chiesa è frutto di una donazione di due pescatori scillesi ed è databile al 1750 (presto racconteremo anche questa storia)

ph Alessandra Moscatello

Molte le opere custodite all’interno della Chiesa ma sicuramente l’occhio viene rapito dal portale che dall’atrio porta all’interno della chiesa, in tufo del XVIII secolo, e dall’altare anch’esso in stile Settecentesco.

(altre info sulle chiese di Scilla sono reperibili su www.parrocchiascilla.it dove confluisce il lavoro dell’amico Rocco Panuccio)

Viaggio in Calabria

Tesori dal Regno al MArRC

E’ molto strano scrivere quest’articolo nel particolare momento storico che stiamo vivendo. La realtà fuori dalla finestra del mio studio appare quasi ovattata, tutto è silente, solo il fruscio del vento ed il cinguettio interrompono saltuariamente questo incanto surreale.

Strano scrivere di storia ed arte al tempo del coronavirus. Particolare anche perchè, al momento, il Museo di Reggio come gli altri attrattori culturali italiani, rimane chiuso come misura necessaria per contenere l’epidemia.

In quest’articolo, un po’ per evadere dalle ansie dei discorsi monotematici da Covid19, vi racconto la mostra “Tesori dal Regno, la Calabria nelle collezioni del museo archeologico nazionale di Napoli” visitata nell’ultimo giorno di apertura del MArRC.

Nell’ormai consueta veste espositiva fatta di sfondo mono tinta e belle frasi ad affetto, ravvivate da foto d’epoca di grandi dimensioni, si snoda il percorso espositivo che si prefigge di raccontare il rapporto secolare tra il Museo Partenopero ed il Sud Italia, con particolare attenzione al territorio calabrese e reggino.

Tanti i pezzi degni di nota, dai lacerti di affreschi provenienti dall’ area vesuviana, ai vasi di Ruvo di Puglia (qui magari avrei giocato di più sull’antico nome della Puglia, Calabria), dai pezzi provenienti da Locri, come i meravigliosi elmi, ai piccoli tesori monetali.

La mostra conclude il suo percorso con l’esposizione multimediale anticipata dal c.d. Sancofago di Eremburga, dal nome della seconda moglie di Ruggero I, accompagnata da un’interessante descrizione che rimanda ad una pagina di storia spesso trascurata, ma che definisce la Calabria così come oggi la conosciamo. Mi riferisco all’arrivo alle nostre latitudini dei normanni che scelsero Mileto come sede del loro potere.

Adesso non ci resta che sperare in un prossima apertura del museo di Reggio perchè questo significherebbe che la parentesi surreale legata all’epidemia da Coronavirus sarebbe già archiviata.

Per il momento resistiamo restando semplicemente a casa diffondendo magari il virus della bellezza, un’epidemia che non spaventa nessuno.

viaggio in Italia

Tindari ed i suoi tesori nascosti

Spesso parlando di Tindari si limita la conversazione all’importantissimo santuario mariano, ma la storia di questo luogo, e le tracce dell’antica città, sanno stupire forse più del meraviglioso affaccio sul tirreno dal quale è possibile godere di un curioso ricciolo di sabbia che si protende verso il mare.

Le tracce di Tyndaris iniziano ad incuriosire il visitatore già dall’arrivo al borgo dove, un po’ sparse sulla statale, è possibile scorgere i resti delle mura dell’antica città.

L’ingresso al parco archeologico vero e proprio lo si incontra procedendo poco oltre la piazza belvedere prospicente al santuario. In biglietteria è possibile acquistare anche un ticket unico con il quale visitare il parco archeologico e la poco distante villa romana di Patti (piccola nota: se avete bisogno di guide cartacee o di altro oggetto che facilita la visita provvedete prima, perchè al momento il sito non dispone di un bookshop).

L’antica Tyndaris venne fondata dal tiranno siracusano Dionisio I all’inizio del IV sec. a. C. con l’obiettivo di insediarci alcuni suoi mercenari Messeni e garantirsi così il controllo su un territorio molto vasto compreso nell’attuale golfo di Patti.

La città costruita in altura su un pianoro leggermente declinate verso il mare prende il nome da Tindaro, re di Sparta, e padre naturale e putativo dei due Dioscuri (a Polluce viene sempre attribuita la paternità di Zeus mentre Castore in alcune versioni viene considerato figlio naturale del re di Sparta e di Leda) ed ebbe una importantissima continuità di utilizzo anche con l’arrivo dei romani sull’isola.

Tyndaris da base dei Cartaginesi si consegnò alla repubblica romana volontariamente e questo le permise di divenire Civitas Decumana conservando una certa autonomia.

Nella fase ultima della repubblica Tindari, come del resto l’intera Sicilia, era in mano di Sesto Pompeo, che la utilizzò come sua base per le operazioni che lo vedevano contrapposto alle forze di Ottaviano che si avviava a divenire Augusto.

La visita al parco archeologico oggi è anticipata dall’ingresso al piccolo antiquarium nel quale, oltre ad altri interessantissimi reperti ( per me, reggino, è stato emozionante trovare una monenta di Reggio del III sec. a.C) viene conservata proprio una testa monumentale di Augusto. Proprio quest’ultimo nella riorganizzazione dei territori caduti sotto al suo controllo ribattezzo la città come Colonia Augusta Tyndaritanorum.

Oggi il sito premette di leggere l’antica città con i suoi assi viari perfettamente allineati con un decumano centrale e perpendicolarmente i cardi a formare degli isolati perfettamente ad angolo retto.

Incrocio tra il decumano principale ed un cardo che scende verso la parte bassa della città

L’intera area archeologica non è stata tutta attenzionata da scavi ma quelli realizzati hanno permesso di mettere in luce, oltre agli assi viari di cui si diceva, anche importanti edifici pubblici come il basamento di un’area sacra prospicente al decumano principale, la basilica nelle vicinanze di uno degli ingressi della città ed il panoramicissimo teatro.

Degno di nota è l‘insula quattro (un intero isolato restituito alla luce del sole ed agli occhi dei moderni) che su tre terrazzamenti si sviluppa dal decumano principale verso la basilica con botteghe, magazzini, due domus e le terme pubbliche.

Molto suggestivi i mosaici presenti nell’edificio termale che già stupiscono nei due apodyterium (spogliatori) presentando una Triskeles ed in quello di desta un toro e due Pilei con astri, tipici simboli dei Dioscuri, per poi continuare con scene di lotta, Bacco e ambientazioni marine.

Altri suggestivi mosaici, questa volta a figure geometriche, sono presenti in una domus che si affaccia sul decumano principale all’altezza dell’area sacra in prossimità di un altro ingresso in città monumentalizzato con propileo.

Di questa antica città manca al momento l’individuazione di una estesa presenza di edifici templari e non sono pochi gli studiosi che ipotizzano che la verà agorà della città si trovasse nell’altura che oggi ospita il santuario mariano. Ancora una volta il moderno raccoglie a piene mani in tema di divinità dall’antico.

Che dire? Non vi resta che andare a godervi questo importante centro siciliano e se vi posso dare un consiglio vi suggerirei alla fine della visita del parco di gustare una granita ai gelsi rossi… Io l’ho fatto e dopo per magia ho iniziato a parlare siciliano.