Viaggio in Calabria

Ferruzzano sei come il primo amore, non ci si può scordare

Ferruzzano per me è sempre stato un paese particolare. Incrocio spesso sul mio percorso il suo nome ed i suoi abitanti. Imparai a conoscerlo ancora prima di visitarlo attraverso i racconti della nonna materna, ed imparai a conoscere quegli usi antichi come quello di realizzare dei casotti in spiaggia, I LOGGI, dove ci si traferiva per lunghi periodi in estate, di quella vita misera che diventava ricca di significato negli occhi di chi quel passato l’ha vissuto ed ha visto in qualche misura l’inizio di quello spopolamento verso la Marina. Al tempo prendere il treno per andare a Reggio sembrava quasi un viaggio lunghissimo, quei racconti che certe volte usano termini di un dialetto quasi incomprensibile.

E’ un’area questa carica di storia, basti pensare alla vicinanza con Capo Bruzzano, probabile approdo dei “coloni” greci che dopo andarono a fondare Locri, o come non ricordare i numerosi ritrovamenti preistorici che in quest’area spesso vengono segnalati.

L’origine della frazione interna di Ferruzzano non differisce nelle motivazioni da tutti gli altri centri limitrofi che ebbero la necessità di una maggiore difesa da quel mare che prima fu incredibile collegamento di civiltà.

Il borgo fu casale di Bruzzano, ed appartenne a numerose famiglie della nobiltà locale come ad esempio la famiglia Marullo della contea di Condojanni, ai Canotto fino al 1592. Passò poi agli Staiti fino al 1674 ed infine ai Carafa che lo tennero fino al 1806, data nella quale vi fu l’eversione della feudalità.

Con l’istituzione dei Comuni del 1811 Ferruzzano fu elevato a comune ed incluso nel Circondario di Staiti che in quel momento storico diviene il centro più importante dell’area.

Ferruzzano venne pesantemente danneggiato dai terremoti del 1783 e da quello del 1907. Una testimonianza diretta dell’attaccamento e della combattività dei sui abitanti ci viene riportato da Umberto Zanotti Bianco che nel suo racconto “Pazza per amore” contenuto nella raccolta “Tra la perduta gente” all’inizi degli anni ‘20 del ‘900 così racconta:

“Dopo il terremoto del 1907 una commissione geologica aveva dichiarato inabitabile Ferruzzano e il Genio Civile aveva costruito le nuove case baraccate nella frazione Saccuti. Ma più che la forza dell’abitudine, la maggior vicinanza ai pascoli del monte Trizzo, alle terre sul versante del La Verde, aveva indotto coloro che si erano salvati da quel disastro a sistemarsi tra le rovine, riattando alla meglio, con legname, i vani lesionati. Sicché quando decidemmo ad aprire una Casa dei bambini a Saccuti, quei di Ferruzzano accorsero impermaliti:- Siamo noi la maggioranza del Comune: se fate l’asilo alla frazione vi capiterà male.

E così aprimmo due asili…”

Oggi Ferruzzano si è definitivamente spostato nella frazione marina con uno sviluppo caotico a ridosso della statale 106 davanti ad un mare ricco di voci nuove ed antiche con una vocazione turistica balneare.

La vera sfida però, è riscoprire quel passato nell’entroterra che oggi è scarsamente abitato e conserva intatto nel silenzio di quelle viuzze strette, un passato contadino ed orgoglioso che deve essere raccontato per non andar perduto.

Sfida ancor più affasciante è rappresentata dal sito della grotta rupestre di Iuderìu o dal bosco di Rudina e dai suoi palmenti che ci raccontano della laboriosità e della ricchezza di quest’area.

I palmenti sono depositari dell’antico sapere della vinificazione. Servivano a trasformare l’uva in mosto e si costituiscono da due vasche tra loro collegate, la superiore prende il nome di buttiscu e quella inferiore di pinaci. Questi sistemi hanno avuto una continuità di utilizzo per secoli facendo le fortune di quest’area che ha esportato vino in ogni angolo del Mediterraneo.

Un passato suggestivo, una terra straordinaria carica di storia e panorami mozzafiato, che decisamente riescono ad affascinare i visitatori. Per averne un semplice esempio, basta affacciarsi dalla piazza principale, quella della chiesa di Ferruzzano Superiore. Da questo terrazzo a quasi 450 mt d’altezza, lasciando alle spalle la chiesa che nonna ricorda baraccata il giorno del matrimonio e che in facciata riporta la scritta:

“Ferruzzano sei come il primo amore, non ci si può scordare”.

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Le meraviglie della Collina di Pentimele

Esiste un luogo a pochi passi dal centro storico della città di Reggio Calabria che forse più di ogni altro potrebbe diventare vetrina delle potenzialità ecoturistiche della nostra terra.
Mi riferisco a quel balcone naturale che risponde al nome di Collina di Pentimele.
Tralasciamo il naturale snodo viario che dalla zona “Serpentone” porta agilmente alla sommità di questa dolce altura. Decidiamo di affrontare il breve dislivello che dallo snodo della tangenziale Via Lia, permette con qualche minuto di fatica, di percorrere brevemente il Sentiero Italia e godere di uno dei paesaggi più incredibili sull’intera città.

La città vista da Pentimele


Già da solo, il Sentiero per eccellenza potrebbe bastare ad una oculata politica attenta ad un approccio dolce alle aree interne a focalizzare l’attenzione su questi luoghi, ma andiamo oltre.
Non percorriamo che qualche centinaio di metri di questo sentiero, pensato già negli anni 80 e poi realizzato un decennio dopo, con l’obiettivo di collegare l’intero territorio nazionale da nord a sud, isole comprese. Fermiamoci su queste alture.
Qui, il mito ci racconta dell’origine di questo nome particolare riallacciandosi alla storia di cinque splendide fanciulle. Le donne erano gemelle perfettamente identiche ed era possibile distinguerle solo attraverso il canto che pervadeva l’intero circondario e da qui la denominazione della collina dei cinque canti.
Dal mito alla storia poi il salto è brevissimo. Intatte su queste alture si conservano le ultime pagine delle fortificazioni dello Stretto. Silenti testimoni di uno dei momenti che riunificarono nuovamente la storia delle due sponde di questo incredibile braccio di mare, i forti ottocenteschi attendono l’occasione per esprimere a pieno le loro potenzialità.
Opere sulle quali negli anni si sono incrostati falsi miti come l’improprio nome “umbertini”, di fantasiosi collegamenti ecc…


Queste due incredibili opere facevano parte del complesso sistema voluto come ammodernamento della protezione della costa dal neonato Regno d’Italia negli anni 60 dell’800 per poi vedere l’avvio dei lavori di realizzazione negli anni 80 dello stesso secolo.
La sola sponda calabrese ospita ben otto fortezze di varia dimensione alle quali nel ‘900 ne venne aggiunta un’altra a Modena. Questa risponde a tecniche edilizie e ad esigenze belliche che in quei decenni si modificarono a ritmi vorticosi.
Oggi i due forti di Pentimele dopo un’opera di ristrutturazione conservativa aspettano una sorte definitiva che mi auguro possa essere proficua per il territorio. Immagino ad esempio un luogo nel quale si possa conservare, studiare e tramandare la memoria delle fasi ultime della nostra storia, dall’800 al ‘900.
Proprio Pentimele fu luogo testimone di quelle pagine.
Proprio la rada sottostante ospitò parte della spedizione che mosse alla volta della Sicilia quando i franco-napoletani, all’inizi dell’800, pianificarono l’occupazione della Sicilia per strapparla ai borbonici che protetti dai britannici ripararono sull’isola.
Dei forti ottocenteschi abbiamo già parlato, ma Pentimele anche nella fase successiva ospitò strutture difensive che rispondevano al mutato quadro di riferimento dell’“arte della guerra” e proprio in quel luogo incantato vennero edificate alcune postazioni per la difesa contraerea della città oltre a tutta una serie di strutture fondamentali allo sforzo bellico italiano.

Non dimentichiamo che nel 1943 il fronte della Seconda guerra mondiale passò proprio alle nostre latitudini.
Fa impressione vedere gli effetti dei bombardamenti, riecheggiano alcune sciocche considerazioni di chi la guerra non l’ha mai vissuta e banalmente la invoca.

Gli effetti di uno “spezzonamento”


Stona ancora di più sul far della sera quando da questo luogo quasi onirico si riesce ad apprezzare una visuale impareggiabile sulla Città.
Abbiamo bisogno di visione unitaria e di utilizzo economicamente orientato affinché tutta questa memoria possa diventare anche utile per il territorio che l’ha vissuta ed oggi quasi dimenticata.

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Un gioiello chiamato San Giorgio Morgeto

Esiste un luogo nella provincia di Reggio Calabria che non ti aspetti. Uno di quei luoghi che quando vai via senti ripetere dalla compagnia quella frase quasi offensiva; “non sembra manco di essere a Reggio”. Come se per condanna divina la bellezza non dovesse albergare in queste contrade che invece al netto di qualche decennio di inetta incapacità a riconoscerla ha sempre vissuto di una bellezza estrema, magari povera, ma pur sempre dignitosissima.
Il luogo di cui vi voglio parlare in questo appuntamento è San Giorgio Morgeto.
L’incanto inizia a colpire il viandante già nell’avvicinamento al borgo, con quelle case così tenacemente aggrappate a salitelle e vicoli che improvvisamente cedono il passo ai ruderi dei bastioni di quello che fu il Castello di San Giorgio.

Castello di San Giorgio Morgeto

L’origine del centro si perde come spesso accade alle nostre latitudini nella notte dei tempi, ma questo borgo ci da la possibilità di approfondire un periodo che spesso viene trascurato nei nostri racconti dei luoghi. Mi riferisco a quel lunghissimo lasso di tempo che precede l’arrivo nell’ VIII sec a.C. di gente proveniente dalla Grecia che diedero vita a quella che impropriamente spesso viene definita come colonizzazione ma che in realtà darà il via alla creazione di città nuove “staccate” dalla terra di origine.
Il nome stesso di questo centro ci da spazio per parlare di Morgete figlio del mitico Re Italo che furono “fondatori” di quei gruppi definiti Itali e Morgeti (che prima venivano appellati come Enotri).
Queste popolazioni “indigene” insieme ad altri gruppi come Siculi e Ausoni erano già qui prima dell’arrivo dei greci e convissero con loro per molti secoli.
E’ interessante vedere poi come molte fonti anche autorevolissime in qualche modo rileggano nella presenza degli Enotri in punta di Stivale una legittimazione del possesso di questa terra ricordando l’origine greca di quelle genti.
San Giorgio poi assunse il suo nome e buona parte della sua conformazione attuale nel corso del medioevo.


Pare proprio che il centro venne risparmiato dalle incursioni saracene per intercessione del Santo della Cappadocia ed i cittadini decisero di acquisire la nuova denominazione che prima invece ricordava il nome del re Morgete.
La denominazione attuale invece si acquisì dopo l’unità d’Italia con l’affiancamento alla denominazione di San Giorgio anche di Morgeto quasi a chiudere un cerchio plurimillenario.
Il borgo oggi vanta oltre ad un dedalo inestricabile di vicoli, tutta una serie di luoghi carichi di fascino.
Oltre al già citato castello e a quella che viene definita “Fontana Bellissima” con la sua storia quattrocentesca, sono decisamente i grandissimi palazzi gentilizi a colpire l’immaginario del visitatore.
Oggi resi ancor più affascinanti da un’aria quasi di aristocratico senso di decadenza, questi palazzi ci
parlano di un passato importante ancora oggi testimoniato da imponenti portali e gusto
ricercatissimo nelle rifiniture.


Ad essere sinceri però, e non per vicinanza al santo al quale è dedicato, è sicuramente il convento dei domenicani con la vicina chiesa dell’Annunziata ad incuriosirmi ed affascinarmi di più.
Divenuto ormai anche il cantiere monumento storico all’inconcludenza e all’insipienza dei “manovratori”, un tempo questo angolo di Calabria era uno dei centri culturali più importanti del circondario, dotato di una imponete biblioteca.
Qui si formò l’ultimo degli uomini rinascimentali, il filosofo della Città del sole, Giovanni Domenico Campanella ai più noto come Tommaso.
San Giorgio merita il tempo di una visita, merita l’attenzione del viandante, che oltre a lasciarsi rapire da una storia infinita e da paesaggi che al tramonto raggiungono la superbia, sa anche raccontare una storia viva di artigiani e di imprenditori che sanno innovare anche alle nostre latitudini.

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A Bagnara dove l’Aspromonte precipita nel Tirreno

Bagnara è un borgo normanno in terra greca, possiamo definirlo così questo splendido centro affacciato sul Mar Tirreno.

Nonostante si ipotizzino origini molto più remote le prime attestazioni storiche risalgono all’ XI secolo d.C. quando sotto i normanni l’area divenne prima prima uno snodo logistico e poi vide la fondazione, nel 1085 dell’abbazia di Santa Maria e dei XII apostoli nell’area della rupe “Martorano”.

Proprio in questo periodo il centro acquisisce importanza strategica per la sua collocazione geografica e per questo i normanni decisero di migliorarne le difese.

Nel secolo successivo Bagnara incrocia il suo destino con Riccardo d’Inghilterra che coinvolto nella III’ Crociata sbarcò in Sicilia per risolvere una disputa ereditaria nella quale era coinvolta la sorella Giovanna vedova di Guglielmo II.  Per far pressione e riottenere la dote della sorella da Tancredi, Riccardo, prese la città di Bagnara nell’ottobre del 1190. Alla fine Riccardo ottenne quanto richiedeva e potè ripartire per la Terra Santa.

Molto importanti per la storia del centro affacciato sulla Costa Viola furono anche le confraternite religiose. Ad esempio la seicentesca “Nobile Arciconfraternita di Maria SS. Del monte Carmelo” della quale oggi a Bagnara è visitabile un piccolo museo annesso allo splendido edificio di culto realizzato agli inizi dell’800, dopo che il precedente venne distrutto dal devastante terremoto del 1783.

Oggi il borgo ha tanto da offrire, qui è semplice mescolare le attrattive che singolarmente si possono trovare in moltissimi centri ma che qui trovano quasi una sintesi perfetta. Il mare certo presenta la vocazione fondamentale ma non bisogna trascurare l’incredibile ricchezza della parte interna, raggiungibile rapidamente e dalla quale si dipanano percorsi Trekking che tolgono il fiato.

Un borgo però che forse più di altri richiede la fruibilità dei suoi luoghi identitari. Con un semplice percorso a piedi sono facilmente raggiungibili tutte le attrattive di questo centro che digrada rapidamente verso il mare, ma spesso raggiunti questi luoghi ci si può solo fermare ad ammirare gli incredibili esterni come quelli di Villa de Leo o del vicino Castello Ruffo che offrono comunque uno spettacolo incantevole a picco sul mare ma che magari meriterebbero migliori fortune.

Fontana monumentale che ricorda l’arrivo di Garibaldi a Bagnara

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A “Brancaleone Vetus”

Le origini di Brancaleone si perdono nelle nebbie della storia, affondano le proprie radici in un passato antichissimo, fatto di monaci che dal VI al X d. C. hanno abitato questi luoghi isolati ed inaccessibili facendone luogo di meditazione e di crescita spirituale.

Brancaleone Vetus

Come dare torto a questi antichi monaci? Ancora oggi, su questa rupe a 300 metri sul livello del mare,  da Brancaleone “Vetus”, è possibile godere un panorama che ristora occhi e spirito.

Il primo nome di questo luogo pare derivare dagli alloggi molto spartani di questi monaci che abitavo alcune cavità rupestri nell’attuale sito di Brancaleone denominato appunto Sperlinga, dal greco Spèlugx, ovvero caverna.

Sono documentabili peraltro alcuni depositi alimentari, dei veri e propri silos ipogei necessari per la sopravvivenza dell’antico insediamento.

Nel XIV° sec. l’insediamento venne fortificato con la costruzione di un castello di proprietà dei Ruffo di Sinopoli che mantennero il possesso per circa quattro generazioni.

Sulle origini del nome attuale invece non vi è certezza ma tante suggestive ipotesi, una prima scuola di pensiero lo vorrebbe far discendere dall’antico nome Motta Leonis, secondo altri invece il nome attuale pare si riferisca al latino “branca” in riferimento alla forma di zampa di leone.

Un’altra teoria individuerebbe l’origine del nome come prestigioso riconoscimento di un miles in quanto le fonti accertano che abbia operato a queste latitudini un tal Andrea Brancaleone.

In ultimo, il nome potrebbe derivare dal nome dalla pianta “boccaleone”, visto che il borgo in alcuni autori viene denominato proprio Boccalionem.

Ruderi Brancaleone

Al di là delle tante suggestioni sul nome del borgo, furono molte, nei secoli le famiglie nobili che governarono questo territorio che sul finire del ‘400 gli aragonesi vollero ulteriormente fortificare.

Dopo i Ruffo, sotto i quali nell’ultimo periodo il territorio patì una forte crisi economica, il feudo passò agli Ayerbo d’Aragona e successivamente nella seconda metà del ‘500 agli Spatafora e successivamente ai Carafa fino al 1806, in un susseguirsi di vendite facilmente documentabili della quale risparmio i singoli interessantissimi passaggi dai quali ad esempio apprendiamo che qualche anno dopo il 1571 il conte Alfonso de Ayerbo, vende per 30.000 ducati il possedimento di Brancaleone alla nobile messinese Donna Eleonora Spadafora, consorte di  Federico Stayti, che a causa della morte del figlio Andrea, concede poi il possesso di quel territorio al nipote Federico.

Resti di affreschi Madonna del Riposo

Il terremoto del 1783 provoco’ gravi danni per piu’ di venticinquemila ducati, ma fortunatamente non si registrarono vittime

Nel 1799, Brancaleone, per disposizione del generale francese Chianpinnet, venne incluso nel cantone di Bova e nel1806, un provvedimento normativo francese, lo dichiarava Universita’ nel cosiddetto governo di Bianco e distretto di Gerace. Fu infine riconosciuto comune nel 1811.

Il borgo poi venne ulteriormente danneggiato dai terremoti del 1905 e 1908.

Durante il ventennio fascista poi fu la destinazione del confino disposto dal governo fascista nei riguardi del poeta Cesare Pavese.

E’ difficile riassumere in poche righe le tante pagine di storia di questo antico e nobilissimo abitato, che oggi aspira con l’intervento meritorio di tantissimi volenterosi, di raccontarsi e di raccontare la propria storia unica ed allo stesso tempo comune di quell’angolo di Calabria sospeso tra mare e cielo

Grotta Albero della vita

Le mie interviste

Roberto Rugiano ci parla dei “Falconieri dei setteventi”

Nel racconto catastrofistico della nostra terra, come spesso ci diciamo, emerge con ricorrenza costante il rumore dell’albero che cade e mai quello della foresta che cresce.

Vi voglio raccontare l’esperienza di Roberto Rugiano a Civita nel cosentino, la sua passione, il suo progetto e la sua voglia di “restanza”.

Un’ultima precisazione, l’intervista è stata fatta prima che iniziasse questa situazione surreale legata al coronavirus, per questo, mi piace ripartire da qui, con chi ci crede e lotta da anni.

Parlaci di te, chi è Roberto Rugiano?

Fino a qualche anno fa avevo una piccola azienda di servizi che si occupava di manutenzione del verde sia pubblico che privato.

Eravamo presenti anche nel settore dell’agricoltura biologica, ma con la crisi degli ultimi anni abbiamo dovuto prendere la decisione di chiudere l’attività.

A quel punto quella che era una passione, i rapaci, è diventata un lavoro che ha fatto vincere una scommessa.

Se dovessi definirmi mi definirei come un pazzo/folle.

Raccontaci dei Falconieri dei Setteventi, come nasce la tua attività?

Falconieri dei Setteventi è un progetto nato quasi 3 anni fa che corona una passione, la gestione di alcune specie, che si è consolidata negli ultimi 2 decenni.

Tutto nasce dal soccorso ad un rapace, probabilmente colpito da un bracconiere, al quale ho prestato le prime cure che hanno fatto nascere quella passione che ancora mi porto dentro.

Non mi definisco un falconiere tradizionale, non mi occupo di caccia o di spettacoli ma è una passione sfegatata verso questi animali. Quello che cerchiamo di fare è puntare fortemente sulla divulgazione della biologia di questi meravigliosi esemplari.

L’associazione Culturale Setteventi oggi offre un’esperienza unica, l’interazione con questi rapaci.

Qui la differenza con la falconeria tradizionale. Mentre quest’ultima non offre questa possibilità, la nostra finalità è quella di realizzare una sorta di avvicinamento con interazione tra i nostri ospiti ed i rapaci.

Una sorta di percorso didattico e interattivo legato al mondo di questi meravigliosi animali, che permetta ai più piccoli di scoprire un mondo ed ai più grandi di evocare i ricordi o le tante leggende legate a questo settore.

Cosa vuol dire per te restare in Calabria?

Vuol dire vincere una scommessa. Tanta gente viene a trovarci, curiosa di conoscere una specie, e quando va via rimane soddisfatta per aver conosciuto un mondo.

Non voglio fare come hanno fatto altri. E’ facile prendere la valigia ed andarsene per trovare di meglio. La scommessa è quella di farcela qui per valorizzare quello che abbiamo al fine di non andare via.

Con questo piccolo progetto io forse ci sono riuscito.

Viaggio in Calabria

San Giuseppe a Chianalea di Scilla

Alla fine della meravigliosa passeggiata nell’antico borgo dei pescatori di Chianalea si giunge in uno spiazzo dove una spartana facciata annuncia la presenza di una chiesa.

Spesso le apparenze ingannano. Questo è un luogo intriso di fascino e storia, ed è varcato il portone che ci accorgiamo di trovarci in uno degli angoli più antichi di Scilla.

Le origini di questo luogo di culto risalgono al luglio 1619, quando Maria Ruffo invitò a Scilla i padri Crociferi con il compito di assistere la popolazione.

Venne costruito un piccolo ospedale e, per accoglierli, un convento su di una pre-esistente chiesa bizantina. Il convento era dotato di una cappella che venne intitolata a Maria SS. Annunziata. L’attuale chiesa altro non è che la cappella di quell’antico convento.

L’edificio restò in piedi fino alla metà del XIX secolo, quando venne distrutto a seguito dei lavori per la costruzione della ferrovia.

Testimonianza delle dimensioni dell’antico edificio è la porzione di arco ancora oggi visibile nella strada che, da Chianalea, conduce alla chiesa. La chiesa subì solo qualche danno al tetto nel terremoto del 1908 e questo portò alla realizzazione del tetto in legno; sempre nel ‘900 vennero realizzate due aperture rettangolari nella parte  sinistra dell’edificio. Nel 1996 venne avviata una campagna di restauro e recupero durante la quale vennero individuati i resti di una chiesetta bizantina che, probabilmente, poi venne utilizzata come cripta: vennero anche ritrovati i resti del canonico Bovi, morto nel terremoto del 1783, che, per sua volontà, venne sepolto nella Chiesa vicino al mezzo busto di San Giuseppe.

Ph Alessandra Moscatello

Fu proprio il canonico Bovi, che era anche medico, ad introdurre il culto di San Giuseppe a Scilla nella prima metà del ‘700. La statua che oggi viene esposta nell’abside della Chiesa è frutto di una donazione di due pescatori scillesi ed è databile al 1750 (presto racconteremo anche questa storia)

ph Alessandra Moscatello

Molte le opere custodite all’interno della Chiesa ma sicuramente l’occhio viene rapito dal portale che dall’atrio porta all’interno della chiesa, in tufo del XVIII secolo, e dall’altare anch’esso in stile Settecentesco.

(altre info sulle chiese di Scilla sono reperibili su www.parrocchiascilla.it dove confluisce il lavoro dell’amico Rocco Panuccio)

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Tesori dal Regno al MArRC

E’ molto strano scrivere quest’articolo nel particolare momento storico che stiamo vivendo. La realtà fuori dalla finestra del mio studio appare quasi ovattata, tutto è silente, solo il fruscio del vento ed il cinguettio interrompono saltuariamente questo incanto surreale.

Strano scrivere di storia ed arte al tempo del coronavirus. Particolare anche perchè, al momento, il Museo di Reggio come gli altri attrattori culturali italiani, rimane chiuso come misura necessaria per contenere l’epidemia.

In quest’articolo, un po’ per evadere dalle ansie dei discorsi monotematici da Covid19, vi racconto la mostra “Tesori dal Regno, la Calabria nelle collezioni del museo archeologico nazionale di Napoli” visitata nell’ultimo giorno di apertura del MArRC.

Nell’ormai consueta veste espositiva fatta di sfondo mono tinta e belle frasi ad affetto, ravvivate da foto d’epoca di grandi dimensioni, si snoda il percorso espositivo che si prefigge di raccontare il rapporto secolare tra il Museo Partenopero ed il Sud Italia, con particolare attenzione al territorio calabrese e reggino.

Tanti i pezzi degni di nota, dai lacerti di affreschi provenienti dall’ area vesuviana, ai vasi di Ruvo di Puglia (qui magari avrei giocato di più sull’antico nome della Puglia, Calabria), dai pezzi provenienti da Locri, come i meravigliosi elmi, ai piccoli tesori monetali.

La mostra conclude il suo percorso con l’esposizione multimediale anticipata dal c.d. Sancofago di Eremburga, dal nome della seconda moglie di Ruggero I, accompagnata da un’interessante descrizione che rimanda ad una pagina di storia spesso trascurata, ma che definisce la Calabria così come oggi la conosciamo. Mi riferisco all’arrivo alle nostre latitudini dei normanni che scelsero Mileto come sede del loro potere.

Adesso non ci resta che sperare in un prossima apertura del museo di Reggio perchè questo significherebbe che la parentesi surreale legata all’epidemia da Coronavirus sarebbe già archiviata.

Per il momento resistiamo restando semplicemente a casa diffondendo magari il virus della bellezza, un’epidemia che non spaventa nessuno.

Le mie interviste

A Gerace per “Arte e Fede” con Giuseppe Mantella

Ad agosto ho ovuto il piacere di fare una chiacchierata con Giuseppe Mantella, vera anima del progetto “Arte e fede nella diocesi di Locri-Gerace”. Quest’idea che di anno in anno ha confermato standard elevatissimi è giunta alla sua quarta edizione ed è finanziata con il bando regionale PAC 2014-2020 AZ. 2 mostre d’arte.

“Arte e Fede”, come già detto, è ideato da Giuseppe Mantella e coordinato da Don Fabrizio Cotardo e Don Angelo Festa. Il progetto è promosso da Monsignor Francesco Oliva, Vescovo della diocesi locridea.
Tantissimi gli enti coinvolti come la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Cosenza, Catanzaro e Crotone e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia.

Con Giuseppe Mantella abbiamo fatto il punto della situazione alzando un po’ lo sguardo sulle prospettive future.

Così Mantella: “L’idea è quella di non far chiudere il cantiere, nel senso che Arte e Fede non deve fermarsi il dodici di agosto ma continuare fino a conclusione dei lavori. Gli anni scorsi il cantiere finiva e poi eravamo noi restauratori a completare i lavori. Quest’anno vogliamo che siano coloro i quali hanno lavorato durante l’estate, continuando gli accordi quadro con le diverse Università, a tornare ospiti del nostro Vescovo e con noi concludere queste operazioni. Quest’anno abbiamo preso in considerazione Fra Diego da Careri con la Madonna degli Angeli di Badolato. Vogliamo farlo conoscere attraverso questa macchina barocca e tra gennaio e febbraio organizzare una prima giornata di studi su Fra Diego da Careri ed esporre questa straordinaria opera. Fare in modo che il progetto possa continuare vuol dire anche che nel giro di due anni possa venire fuori una monografia di tutte le opere che lui ha realizzato in tutta Italia (…). E’ da tenere in considerazione una cosa importante, è un’opera che non è della Diocesi di Locri e Gerace, ma nello spirito di condivisione di quella che è la nostra terra ed i nostri artisti, non bisogna essere territoriali ma inclusivi.

Questo deve essere lo spirito; non siamo Diocesi di Locri Gerace, di Reggio Calabria o di Catanzaro ma siamo la Calabria che fa in modo che i figli della propria terra possano venire fuori. E’ questo lo spirito del progetto. Bisogna fare in modo che il prossimo anno possano nascere accanto ad Arte e Fede altre iniziative importanti dal punto di vista scientifico. Aprire la Cittadella di Gerace è l’obiettivo di Sua Eccellenza, fare in modo che possa diventare una sorta di centro culturale in cui si possa realizzare veramente questo sogno, fare in modo che la Calabria possa produrre cultura in un luogo storico come Gerace. La volontà c’è, i protagonisti ci sono, tutto quello che si sta facendo lo si fa come volontari a titolo gratuito ma in maniera estremamente professionale. Le risposte che abbiamo avuto dalle università
e dalle istituzioni sono straordinarie, abbiamo visto che c’è sete e fame di tutto questo e quindi non possiamo che continuare. Dopo la mostra su Fra Diego da Careri abbiamo previsto per l’inverno tutta una serie di attività didattiche per le scuole all’interno del museo e contemporaneamente fare in modo, attraverso le associazioni come il FAI o Legambiente, che questo luogo possa essere punto d’incontro per conferenze o qualsiasi altra iniziativa possa essere realizzata. Quindi non solo Arte e Fede ma a 360 gradi, non lavorare in maniera esclusiva ma fare in modo che tutti possano considerare questo luogo aperto per quelle che possono essere future iniziative. Arte e fede il prossimo anno continuerà con un nuovo progetto. Speriamo di riuscire ad avere i fondi dalla Regione Calabria, come lo scorso anno quando ci ha sostenuto per la mostra sui Santi Taumaturghi. Quest’anno vogliamo realizzare una mostra sul barocco in Calabria e quindi con i partner nazionali che abbiamo dobbiamo fare qualcosa di importante.”

Pillole di storia

La storia “I festa Maronna”, la festa di Reggio Calabria

Troppo spesso questo lembo estremo della penisola Italiana, Reggio, manifesta la sindrome della memoria del criceto, il che non permette ai suoi abitanti di vivere a pieno il significato anche dei propri riti collettivi. Ad esempio, la storia dei Cappuccini all’Eremo è una storia molto antica e da sempre collegata alla venerazione dell’effige della Madonna della Consolazione.

I Cappuccini arrivarono sull’altura alle spalle della città (l’Eremo appunto) nel 1533 trasferendosi dalla Valletuccio, invitati dall’arcivescovo del tempo Girolamo Centelles, e si insediarono su di un terreno che venne donato da un nobile, tale Giovan Bernardo Mileto.

Nel fondo, in cui i Cappuccini fecero sorgere la loro comunità, insisteva una cappella, con una riproduzione della Madonna della Consolazione di piccole dimensioni.

Nel 1547 per la costruzione di una chiesa, che rispondesse alle mutate esigenze di un culto che si rafforzava, al quale seguì inevitabilmente la crescita della comunità dei Cappuccini, il nobile Camillo Diano commissionò  al pittore Nicolò Andrea Capriolo una nuova raffigurazione della Vergine.

La nuova opera, quella a noi pervenuta, si arricchisce di due figure oltre alla Madonna con Bambino, si sommarono infatti San Francesco e Sant’Antonio, nei quali si ipotizza che l’artista abbia rappresentato i due nobili benefattori, Diano e Mileto.

Lo stretto legame però tra la cittadinanza reggina e la sua Patrona inizia nel decennio che va dal 1567 al 1577.
Sono proprio i Cappuccini ad occuparsi degli appestati ed è proprio ad un frate, Antonio Tripodi, che si trovava in preghiera davanti al quadro, che la Vergine preannunciò la fine della pestilenza.

Successivamente verrà avvertito il governatore, e si disporrà una processione popolare verso l’Eremo.

Nelle successive pestilenze del 1636 e 1656 il legame con l’Avvocata del popolo reggino crebbe e si consolidò ulteriormente.

Il rapporto tra la Madre della Consolazione ed i reggini si fortificò successivamente in occasione anche di altri eventi calamitosi come carestie o eventi tellurici. Nel terremoto del 1693 in occasione il quadro raffigurante la Vergine venne spostato al Duomo e le celebrazioni Mariane vennero organizzate non più nel mese di novembre ma bensì a settembre.

Il filo rosso tra Maria ed il suo popolo percorre a tappe costanti la travagliata storia della città dello Stretto anche in epoca moderna, come nel caso dei devastanti terremoti del 1783 (che causò l’allontamento dei Cappuccini dall’Eremo, dove fecero ritorno nel 1801) e del 1908.

Infine due date che costituiscono un po’ i prodromi della festa come noi oggi la conosciamo, cioè il 1819 quando Mons. Tommasini dispose che la festa assumesse carattere diocesano ed infine il 1896, data nella quale il Sindaco del tempo ed il Card. Portanova disposero che la sede Vescovile avrebbe provveduto all’organizzazione della festività annuale con una preparazione di sette sabati da celebrarsi all’Eremo, mentre l’amministrazione si assunse l’impegno della realizzazione di celebrazioni civili.

Quel legame, che ancora oggi si avverte, resta uno dei pochi barlumi di unità, in una città perennemente divisa, che in occasione delle feste settembrine riesce a trovare momenti di convivenza, anche se spesso traumatica e troppo spesso solo folklorica.

Riuscire a riabbracciare quello che siamo stati, conoscerlo, permette di individuare tratti comuni ed anche diversi ovviamente, che non necessariamente sfociano nel sacro, ma che inevitabilmente ci parlano di noi, di quei bagliori di storia comune che deve far di Reggio una comunità.