Pillole di storia

La storia “I festa Maronna”, la festa di Reggio Calabria

Troppo spesso questo lembo estremo della penisola Italiana, Reggio, manifesta la sindrome della memoria del criceto, il che non permette ai suoi abitanti di vivere a pieno il significato anche dei propri riti collettivi. Ad esempio, la storia dei Cappuccini all’Eremo è una storia molto antica e da sempre collegata alla venerazione dell’effige della Madonna della Consolazione.

I Cappuccini arrivarono sull’altura alle spalle della città (l’Eremo appunto) nel 1533 trasferendosi dalla Valletuccio, invitati dall’arcivescovo del tempo Girolamo Centelles, e si insediarono su di un terreno che venne donato da un nobile, tale Giovan Bernardo Mileto.

Nel fondo, in cui i Cappuccini fecero sorgere la loro comunità, insisteva una cappella, con una riproduzione della Madonna della Consolazione di piccole dimensioni.

Nel 1547 per la costruzione di una chiesa, che rispondesse alle mutate esigenze di un culto che si rafforzava, al quale seguì inevitabilmente la crescita della comunità dei Cappuccini, il nobile Camillo Diano commissionò  al pittore Nicolò Andrea Capriolo una nuova raffigurazione della Vergine.

La nuova opera, quella a noi pervenuta, si arricchisce di due figure oltre alla Madonna con Bambino, si sommarono infatti San Francesco e Sant’Antonio, nei quali si ipotizza che l’artista abbia rappresentato i due nobili benefattori, Diano e Mileto.

Lo stretto legame però tra la cittadinanza reggina e la sua Patrona inizia nel decennio che va dal 1567 al 1577.
Sono proprio i Cappuccini ad occuparsi degli appestati ed è proprio ad un frate, Antonio Tripodi, che si trovava in preghiera davanti al quadro, che la Vergine preannunciò la fine della pestilenza.

Successivamente verrà avvertito il governatore, e si disporrà una processione popolare verso l’Eremo.

Nelle successive pestilenze del 1636 e 1656 il legame con l’Avvocata del popolo reggino crebbe e si consolidò ulteriormente.

Il rapporto tra la Madre della Consolazione ed i reggini si fortificò successivamente in occasione anche di altri eventi calamitosi come carestie o eventi tellurici. Nel terremoto del 1693 in occasione il quadro raffigurante la Vergine venne spostato al Duomo e le celebrazioni Mariane vennero organizzate non più nel mese di novembre ma bensì a settembre.

Il filo rosso tra Maria ed il suo popolo percorre a tappe costanti la travagliata storia della città dello Stretto anche in epoca moderna, come nel caso dei devastanti terremoti del 1783 (che causò l’allontamento dei Cappuccini dall’Eremo, dove fecero ritorno nel 1801) e del 1908.

Infine due date che costituiscono un po’ i prodromi della festa come noi oggi la conosciamo, cioè il 1819 quando Mons. Tommasini dispose che la festa assumesse carattere diocesano ed infine il 1896, data nella quale il Sindaco del tempo ed il Card. Portanova disposero che la sede Vescovile avrebbe provveduto all’organizzazione della festività annuale con una preparazione di sette sabati da celebrarsi all’Eremo, mentre l’amministrazione si assunse l’impegno della realizzazione di celebrazioni civili.

Quel legame, che ancora oggi si avverte, resta uno dei pochi barlumi di unità, in una città perennemente divisa, che in occasione delle feste settembrine riesce a trovare momenti di convivenza, anche se spesso traumatica e troppo spesso solo folklorica.

Riuscire a riabbracciare quello che siamo stati, conoscerlo, permette di individuare tratti comuni ed anche diversi ovviamente, che non necessariamente sfociano nel sacro, ma che inevitabilmente ci parlano di noi, di quei bagliori di storia comune che deve far di Reggio una comunità.

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Al Museo di Reggio Calabria anche Iside e Serapide

Spesso ci diciamo che il Museo di Reggio non è solo Bronzi di Riace (e fortunatamente è proprio così) e forse troppo spesso affascinati da reperti esteticamente più facilmente leggibili tralasciamo una parte del percorso espositivo del livello D del MArRC, quello riservato alle epigrafi che custodiscono, se osservate con la giusta curiosità, pagine di storia cittadina e mediterranea di rilevante importanza.

Proprio vicino ad epigrafi sepocrali di un comandante della flotta romana e a quella di un liberto (schiavo liberato) legato alla famiglia imperiale, probabilmente in città al seguito di Giulia figlia di Augusto, troviamo un blocco tozzo a forma di parallelepipedo che riporta la seguente iscrizione:

ISI ET SERAPI SACRUM Q(uintus) FABIUS TITIANI LIB(ertus) INGENUUS SEVIR AUGUSTALIS FAB(ia) CANDIDA SACRORUM S(ua) P(ecunia).

CONSACRATO A ISIDE E SERAPIDE DA QUINTO FABIO INGENUO LIBERTO DI TIZIANO, SEVIRO AUGUSTALE E DA FABIA CANDIDA DEVOTA (o consacrata) AD ISIDE. A PROPRIE SPESE

(interpretazione e traduzione sono riprese così come riportate nella didascalia museale).

Iside e Serapide al MArRC

Quest’architrave di età imperiale potrebbe sembrare uno dei tanti reperti del nostro passato, ma questo straordinario blocco ci testimonia l’apertura religiosa verso culti provenienti dall’oriente ed in questo caso dall’Egitto Tolemaico.

Iside e Serapide non sono divinità appartenenti all’originale Pantheon romano ma iniziano un lungo viaggio che dall’Egitto probabilmente tramite Alessandria fece tappa in città meridionali come Regium, nel II sec. a.C. li troviamo a Pompei e progressivamente conquistarono Roma.

Si tratta di culti popolari e popolani che il senato vietò inutilmente più volte e ne fece radere al suolo i templi nel 58, 53, 50 e 48 ma i fedeli costantemente li riedificarono.

Successivamente a Roma però a queste divinità vennero eretti templi, nel Campo Marzio a Iside sotto Caligola e più tardi nell’area del Quirinale a Serapide sotto Caracalla.

Come abbiamo visto queste divinità hanno affrontato un viaggio lungo che le ha portate da oriente al cuore dell’impero. Iside si è progressivamente trasformata da divinità egiziana a divinità ellenistica/romana. Serapide invece è una creazione dei Tolomei che fonde in un’unica divinità le caratteristiche di Osiride, Zeus e Plutone.

Ancora una volta i frammenti custoditi al Museo di Reggio pongono la città nel cuore degli scambi e delle culture mediterranee a rimarcare nuovamente una propensione mediterranea che oggi abbiamo un po’ perso e che deve necessariamente essere riscoperta.