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Scopri il Borgo di Amendolea: Storia e Bellezze Nascoste

L’antico borgo di Amendolea è posto su di una altura a 350 Mt sul livello del mare, poco distante dall’odierno abitato e rappresenta una traccia molto significativa della storia di quel pezzo di Calabria.

Le origini del borgo si perdono nei secoli, sappiamo ad esempio che non molto lontano da li, in località Rocca del Lupo (una caratteristica penisola che divide in prossimità della confluenza, le Fiumare Amendolea e Condofuri) viene attestata la presenza umana già nel Neolitico.

Alcuni studiosi ritengono L’Amendolea l’originario confine tra le Polis di Reggio e Locri, ma non vi è unanimità di vedute sul punto in quanto secondo un’altra teoria considerata oggi preminente, tale confine passava invece nell’odierna Fiumara Palizzi.

Risulta però evidente che le caratteristiche del borgo così come pervenutoci siano da rintracciare in epoca medievale.

Anche sul nome del paese vi è incertezza, secondo alcuni deriverebbe dall’indicazione di un mandorleto in zona (e la produzione è ancora oggi presente), ma secondo altri deriverebbe dal nome del primo feudatario normanno.

Di Amendolea si legge in un antico diploma databile tra il 1082 ed il 1099 nel quale si disegna il confine tra il feudo di Amendolea e quello di Bova.

In pieno Feudalesimo il paese crebbe in importanza, nonostante la superficie abitativa fosse di ridotte dimensioni, la presenza del castello, le mura che fortificavano il borgo, lo resero sede del potere feudale, (data l’importanza del borgo, la Fiumara prende proprio da esso la sua denominazione) esteso su Roccaforte (Vunì) Gallicianò (Gallicanum) e Roghudi (Ricudum) ai quali successivamente si unì anche Condofuri.

Come si diceva data la ristrettezza di spazio, le case si sviluppavano in altezza, alcune su tre piani. Il piano terra era adibito a stalla, nel piano di mezzo si trovava la cucina e per finire all’ultimo piano era collocata la camera da letto.

Furono molti i signori che governarono sul feudo di Amendolea intrecciando la loro storia familiare con quel territorio.

Come si diceva, la prima famiglia di cui ci è data notizia fu proprio la famiglia normanna degli Amendolea, per poi passare ai Del Balzo di origine francese.

Sotto gli Aragonesi il feudo passò ai Cardona e successivamente agli Abenavoli e nel 1532 ai De Mendoza.

I Ruffo, ai quali ancora oggi viene intitolato il castello, subentrarono con Francesco duca di Bagnara, mantenendo il potere fino agli inizi dell’800.

Amendolea riesce ancora ad evocare gli echi di un passato glorioso, di pagine infinite di storia unita ad un paesaggio mozzafiato sul torrente, un gigante d’argento, e sul mar jonio, un tempo fonte di pericolo per l’ incursioni dei Saraceni, oggi invece una ricchezza paesaggistico-culturale da integrare sempre di più.

Borgo di Amendolea
Borgo di Amendolea

IL castello

Il patrimonio di bellezza di Amendolea è sicuramente notevole, solo il panorama meriterebbe una visita, ma a questo panorama unico, il borgo sa unire lo stupefacente fascino delle sue architetture.

In poco spazio, all’interno del borgo e poco fuori dall’antico recinto murario, sono presenti quattro edifici di culto (la chiesa di Santa Maria Assunta sul pianoro del borgo, poco fuori le mura troviamo la chiese di San Sebastiano che presenta ancora il campanile, quella di Santa Caterina e percorrendo un breve tratto della strada che conduce a Bova, vicino a un traliccio, è possibile scorgere la chiesa di San Nicola (dove è possibile individuare traccia di affreschi) e una cappella palatina all’interno dell’antico maniero.

Il castello sicuramente però rappresenta quasi l’impronta della storia su questo territorio.

Il borgo era interamente fortificato e presentava due porte d’accesso una in basso e una in alto ma è il castello ovviamente a rappresentare il punto forte della difesa del territorio in collegamento visivo con la fortificazioni di Bova.

Il forte consta di varie fasi edilizie, alla prima si fa risalire una prima torre il tipico donjon normanno al quale successivamente si rimise mano per modificarne la struttura. Nella seconda fase edilizia si realizzò la grande aula finestrata che caratterizza la parte interna del castello. Gli interventi proseguirono con alterne fasi fino al XVIII sec.

Molto suggestivi sono i camminamenti delle sentinelle, con le postazioni di guardia e a monte della grande aula fenestrata la torre cappella, nella quale sono facilmente individuabili lacerti di affresco e una singolare nicchia finestrata.

Come sempre però il fascino dei nostri borghi può essere solo anticipato con la scrittura, per goderne a pieno gli occhi si devono posare su quelle pietre. Buon viaggio.

In escursione ad Amendolea

Viaggio in Calabria

A “Brancaleone Vetus”

Le origini di Brancaleone si perdono nelle nebbie della storia, affondano le proprie radici in un passato antichissimo, fatto di monaci che dal VI al X d. C. hanno abitato questi luoghi isolati ed inaccessibili facendone luogo di meditazione e di crescita spirituale.

Brancaleone Vetus

Come dare torto a questi antichi monaci? Ancora oggi, su questa rupe a 300 metri sul livello del mare,  da Brancaleone “Vetus”, è possibile godere un panorama che ristora occhi e spirito.

Il primo nome di questo luogo pare derivare dagli alloggi molto spartani di questi monaci che abitavo alcune cavità rupestri nell’attuale sito di Brancaleone denominato appunto Sperlinga, dal greco Spèlugx, ovvero caverna.

Sono documentabili peraltro alcuni depositi alimentari, dei veri e propri silos ipogei necessari per la sopravvivenza dell’antico insediamento.

Nel XIV° sec. l’insediamento venne fortificato con la costruzione di un castello di proprietà dei Ruffo di Sinopoli che mantennero il possesso per circa quattro generazioni.

Sulle origini del nome attuale invece non vi è certezza ma tante suggestive ipotesi, una prima scuola di pensiero lo vorrebbe far discendere dall’antico nome Motta Leonis, secondo altri invece il nome attuale pare si riferisca al latino “branca” in riferimento alla forma di zampa di leone.

Un’altra teoria individuerebbe l’origine del nome come prestigioso riconoscimento di un miles in quanto le fonti accertano che abbia operato a queste latitudini un tal Andrea Brancaleone.

In ultimo, il nome potrebbe derivare dal nome dalla pianta “boccaleone”, visto che il borgo in alcuni autori viene denominato proprio Boccalionem.

Ruderi Brancaleone

Al di là delle tante suggestioni sul nome del borgo, furono molte, nei secoli le famiglie nobili che governarono questo territorio che sul finire del ‘400 gli aragonesi vollero ulteriormente fortificare.

Dopo i Ruffo, sotto i quali nell’ultimo periodo il territorio patì una forte crisi economica, il feudo passò agli Ayerbo d’Aragona e successivamente nella seconda metà del ‘500 agli Spatafora e successivamente ai Carafa fino al 1806, in un susseguirsi di vendite facilmente documentabili della quale risparmio i singoli interessantissimi passaggi dai quali ad esempio apprendiamo che qualche anno dopo il 1571 il conte Alfonso de Ayerbo, vende per 30.000 ducati il possedimento di Brancaleone alla nobile messinese Donna Eleonora Spadafora, consorte di  Federico Stayti, che a causa della morte del figlio Andrea, concede poi il possesso di quel territorio al nipote Federico.

Resti di affreschi Madonna del Riposo

Il terremoto del 1783 provoco’ gravi danni per piu’ di venticinquemila ducati, ma fortunatamente non si registrarono vittime

Nel 1799, Brancaleone, per disposizione del generale francese Chianpinnet, venne incluso nel cantone di Bova e nel1806, un provvedimento normativo francese, lo dichiarava Universita’ nel cosiddetto governo di Bianco e distretto di Gerace. Fu infine riconosciuto comune nel 1811.

Il borgo poi venne ulteriormente danneggiato dai terremoti del 1905 e 1908.

Durante il ventennio fascista poi fu la destinazione del confino disposto dal governo fascista nei riguardi del poeta Cesare Pavese.

E’ difficile riassumere in poche righe le tante pagine di storia di questo antico e nobilissimo abitato, che oggi aspira con l’intervento meritorio di tantissimi volenterosi, di raccontarsi e di raccontare la propria storia unica ed allo stesso tempo comune di quell’angolo di Calabria sospeso tra mare e cielo

Grotta Albero della vita

Le mie interviste

Ettù Parànu – Dove suonano ancora le vallate

Era il 2019 quando Davide Carbone e Freedom Pentimalli lanciavano il loro primo lavoro comune dal titolo “Kalavria la terra dei greci di Calabria”.

Un racconto della nostra terra con una prospettiva diversa rispetto a quelle ormai ingiallite alle quali abbiamo fatto l’abitudine.

La linea, ad un anno di distanza, viene confermata nella seconda opera dal titolo “Ettù parànu – Dove suonano ancora le vallate”.

La loro è una visione di giovani che provano a raccontare la propria terra, coinvolgendo certamente i depositari delle antiche orme, ma con una narrazione che non si ferma a questo. Nel loro esplorare, la videocamera, racconta fatti che con naturalezza si coniugano al futuro.

Ma conosciamo meglio i due ideatori di questi lavori che ci hanno condotto in questi due anni a riscoprire un elemento, quello antropico, che nella narrazione della Bovesia non può che avere un ruolo preminente.

Due storie diverse le vostre ma un forte sentimento di appartenenza a questa terra che vivete a distanze variabili.

Davide: L’amore per la Calabria mi è stato trasmesso dai miei genitori in primis, ma anche dai parenti e dagli amici con cui, nonostante la grande distanza, in un’epoca in cui ancora non esistevano smartphone e social ho creato legami molto forti, tra cui Freedom. Insieme abbiamo voluto unire la nostra passione per la Calabria, la mia per il cinema e la sua per la scrittura, provando a creare qualcosa di buono e utile per la nostra terra. Dico nostra terra perché, anche se nato e cresciuto a Monza, sono e mi sento più calabrese di molti calabresi che in Calabria ci vivono.

Quando ogni estate scendo nel mio paesino, purtroppo mi ritrovo a constatare come un pezzo di esso sia svanito, magari nel volto o nei ricordi di un anziano che non c’è più o in case abbattute o in sprazzi di verde divenuti cenere. La Calabria che conoscevo stava svanendo, come gran parte di quella Calabria del passato per cui nutro molta nostalgia. Quindi, avendo oggi un pezzo di Calabria che sta sparendo come la cultura greco calabra, abbiamo voluto documentarne una parte.

Freedom: Si possono mettere radici ovunque, dipende dalla propria capacità di adattarsi e leggere un luogo. Se si ha però fortuna di conoscere il luogo dove generazioni e generazioni dei propri antenati hanno portato avanti la propria esistenza lasciando tracce tutt’oggi visibili, quel luogo diventa particolarmente fertile per coltivare le radici della memoria e degli affetti. Al punto da non sapere se è quel luogo ad appartenerti o se sei tu ad appartenere a lui.

Nel dubbio mi spendo per riscattarlo e, grazie alle competenze e all’arte di Davide, questo tentativo di valorizzazione può raggiungere l’attenzione di molte persone.

Qual è stato il percorso che vi ha spinti a realizzare questo secondo lavoro nel quale ancora una volta emerge un racconto attraverso gli occhi dei giovani della Bovesia?

Risposta congiunta: Nel nostro primo documentario Kalavrìa – La terra dei greci di Calabria abbiamo volutamente escluso il tema musicale in quanto pensavamo che fosse un argomento talmente ampio ed importante da meritare un lavoro a parte.

Dopo oltre un anno passato a portare in giro per l’Italia e all’estero Kalavrìa, con l’opportunità di attingere a fondi regionali, abbiamo accelerato l’ideazione e la produzione di Ettù Parànu – Dove suonano ancora le vallate lavoro non poco travagliato, ma ricco di soddisfazioni.

Quali i progetti, comuni ed individuali, coniugati al futuro?

D: Per quanto mi riguarda, essendo sempre presente l’amore per la Calabria e per il cinema, voglio continuare a mostrare alle persone l’enorme ricchezza della Calabria, dai volti della gente alle loro storie e ai loro ricordi, dai paesaggi da cartolina ai passaggi più segreti, valorizzando il patrimonio storico e culturale.

Abbiamo diverse idee per la mente che vogliamo realizzare, uscendo anche dal filone della cultura grecanica. Non nascondo che la mia ambizione è riuscire a dirigere dei film: è il mio vero sogno nel cassetto. Sono convinto che questi progetti possano essere comuni ad entrambi, vista anche la mia idea di cinema, ossia, girare film in Calabria che per tema principale non abbiano quello della ‘ndrangheta e della criminalità.

F:Prendermi cura di quelle radici greche fino a farle diventare un ponte con la Grecia contemporanea: l’attivismo nel campo della rivitalizzazione linguistica sarà un capitolo centrale dei prossimi anni. Ad esso si uniscono diversi progetti, sia quelli con Davide che riguardano la scrittura e il cinema, magari un romanzo (prima o poi), sia la promozione di attività nel cosiddetto “turismo lento”, un’altra via per valorizzare le bellezze che questa terra di Calabria offre.

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Le emozioni della festa a Gallicianò

Gallicianò è un posto che nel tempo ho imparato ad amare. Un luogo per certi versi ruvido, asciutto, ricco di costratti stridenti e per questo così autentico e straordinario.

Nonostante con orgoglio possa sentirmi a casa li, non avevo mai assistito alla festa del Santo Patrono, durante la quale la statua in gesso, da poco restaurata, sfila per le strette vie del borgo fino a raggiungere il belvedere del Calvario per poi fare ritorno nella chiesa principale del paese.

La prima cosa che colpisce arrivando a Gallicianò, dopo aver percorso i tornanti che dalla fiumara risalgono il crinale, è l’assenza del silenzio che in genere rende quasi ovattato il trascorrere del tempo all’interno dell’acropoli dei greci della Bovesia.

Nei giorni della festa le voci invece tornano ad animare queste contrade, come le urla dei più piccoli che si riprendono gli spazi che per generazioni sono stati dei loro padri.

Ma nonostante il tempo venga scandido diversamente e con un ritmo che sembra più lento, è già tempo di inizare e dopo i primi spari San Giovanni Battista scende le scale che separano la chiesa principale di Gallicianò da Piazza Alimos per poi procedere per tutto Catuchorìo.

La statua, deviando all’altezza del piccolo museo etnografico raggiunge il luogo dove un tempo insisteva la chiesa di San Leonardo. I portatori compiono tre giri in senso orario e tre in senso antiorario, un tempo accompagnati da musiche popolari, oggi da musiche sacre.

Mentre ormai le ombre si allungano perchè il giorno cede il passo alla sera, il Santo adesso portato a spalla dalle donne del borgo raggiunge il Calvario, prima di riabbracciare il paese per proteggerlo ancora.

Il popolo di Gallicianò, che celebra il suo Santo ad agosto, in occasione del martirio e non a giugno, quando invece se ne ricorda la nascita, lega anche quest’aspetto alla vita di queste contrade aspromontane.

Un tempo qui, dal mese di giugno, si era impegnati nelle attività di mietitura ed ecco spiegato perchè la festa si svolge ad agosto e perchè ancora oggi si usa lanciare chicchi di grano al passaggio del Santo in processione e lasciare sempre qualche spiga vicino alla statua durante l’anno.

Ormai però è sera e la statua del Santo dopo aver regalato le ultime emozioni ruotando nuovamente nel sagrato, sulle spalle degli emozionatissimi portatori, con canti vibranti torna nella chiesa simbolo del borgo.

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Il museo etnografico “Anzel Merianù” di Gallicianò

Sono tanti i luoghi che meritano di essere visitati a Gallicianò oltre alle bellezze naturalistiche ed i tanti sentieri, il borgo contiene alcune unicità straordinarie come la Chiesa di San Giovanni Battista, la Sorgente dell’Amore, l’Anfiteatro “Patriarca Bartolomeo” o la chiesa ortodossa Madonna di Grecia.

Oggi però ci soffermiamo sul museo etnografico Anzel Merianù (studiosa greca di etnografia, autrice di diversi saggi) che offre uno spaccato chiarissimo della vita delle nostre aree interne.

Il museo nasce dall’iniziativa del signor Raffaele Rodà, oggi vera anima del museo, e di altri volenterosi che hanno dato vita ad una delle collezioni più interessanti della provincia reggina e non solo.

La struttura oggi adibita a museo, fu in passato sede della scuola elementare, suddivisa in due ambienti che permettono al visitatore un salto nel passato di questa terra.

Nella sala “A” vengono conservati gli utensili e gli oggetti tipici della vita di campagna, curioso trovare la famosa “libretta” (registro di credito) con ancora annotati i conti dei vari clienti, come è facile perdersi nel fascino dei disegni delle bellissime coperte di ginestra.

La sala “B” riproduce invece l’ambiente domestico con tutti gli oggetti di vita comune, ma l’attenzione non può che ricadere sulla riproposizione dell’antico “cannucciato” posto a protezione del letto.

Ma con lo scritto risulta difficile trasmettere il fascino di questa collezione, la curiosità può essere solo saziata con una visita a questo piccolo gioiellino.